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Don Paolo Ponta: il sacerdote pittore

Da tre anni la galleria PagettoArte di Novi Ligure organizza esposizioni antologiche dedicate agli interpreti della pittura novese del secondo ’900, grazie al patrocinio del Comune e dell’associazione Novinterzapagina. Quattro sono gli artisti omaggiati fino a oggi dalle retrospettive allestite seguendo questo filo conduttore, ovvero Mario Maserati, Don Paolo Ponta (il sacerdote pittore), Beppe Levrero, Alberto Boschi e, tra pochi giorni, Luigi Podestà.

Claudio Pagetto spiega: «L’obiettivo verso cui, sin dall’inizio, abbiamo rivolto lo sguardo, attraverso la riproposizione e la riscoperta dell’opera degli interpreti storici dell’arte novese, è la creazione di un polo di confronto dialettico aperto ad artisti, appassionati, curiosi, studiosi e operatori del mondo dell’arte (e della cultura in generale) del nostro territorio. Questo obiettivo ci appare oggi sempre più raggiungibile. Questo ci conforta, ci dà nuovi entusiasmi e ci ingolosisce, spingendoci ad andare avanti. E l’ultima ciliegina è Antologica postuma di Gigi Podestà, del quale il prossimo anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della scomparsa: la mostra sarà aperta al pubblico da sabato 25 novembre a mercoledì 20 dicembre 2017».

Di seguito vi proponiamo un estratto dal catalogo realizzato in occasione dell’esposizione Don Paolo Ponta Pittore del 2015, con le opere e la singolare storia artistica (e umana) del sacerdote pittore (Arquata Scrivia, 1908 – Novi Ligure, 1999).

La mostra

Da tempo, gli amici e gli estimatori di Don Paolo Ponta desideravano dar vita a iniziative che  ne facessero conoscere l’opera pittorica. Alla sua scomparsa, chi scrive, insieme a Francesco Butti, aveva progettato il catalogo che solo ora viene realizzato in occasione della mostra «Don Paolo Ponta Pittore» grazie alla disponibilità della Associazione Culturale Novinterzapagina e della Galleria PagettoArte di Novi Ligure. È doveroso sottolineare come oggi questa iniziativa assuma anche il valore di un omaggio a Francesco Butti che purtroppo ci ha prematuramente lasciati. Tutti coloro che hanno conosciuto Don Paolo e ne hanno apprezzato le opere saranno lieti di  poterle rileggere nei due percorsi sistematici del catalogo e della mostra. Essi non coincidono perfettamente perché si è ritenuto utile privilegiare l’ampiezza del catalogo come testimonianza delle varie fasi della sua produzione, indissolubilmente legata alle sedi del suo ministero sacerdotale.

Questa prima retrospettiva, frutto di una selezione particolarmente rigorosa nel documentare un cinquantennio di attività, si propone di delineare, a 16 dalla scomparsa dell’artista, i principali esiti della sua ricerca

Don Ponta partecipò a molte manifestazioni artistiche della provincia, dalla personale a Cabella Ligure del 1938 (documentata in mostra da una fotografia), a quelle successive presso il Salone dei Commercianti a Tortona tenutesi negli anni sessanta con ricorrenza pressoché annuale, a cui si aggiunge la partecipazione a diversi premi di pittura estemporanei e l’inclusione in alcuni annuari di pittura. Ciò nonostante, sostanzialmente non ha mai avuto alcun riconoscimento critico in senso proprio.

Il percorso espositivo intende mostrare come  la consuetudine dei motivi ispiratori e la loro ripetitività (spesso giudicati negativamente) rappresentino in realtà la fedeltà alla poesia della natura e delle piccole cose e, dal punto di vista tecnico, l’utile esercizio quotidiano che gli permette di raggiungere nei momenti più creativi e ispirati espressioni di notevole lirismo.

Sono presenti in catalogo alcuni rari acquarelli degli anni Trenta che documentano l’inizio della sua attività nei vari luoghi del suo ministero sacerdotale. In essi si può già avvertire quella peculiare capacità di cogliere e rappresentare con  immediatezza forme, colori e luci.

L’intensificarsi dell’attività pittorica, soprattutto negli anni di Sarissola, vede sempre più spesso Don Ponta affrontare i vari soggetti delle nature morte, che al visitatore attento suggeriranno il confronto con gli esiti di importanti artisti del novecento italiano a lui contemporanei.

Primi appunti critici

di Roberto Bergaglio

Don Paolo Ponta è uno dei tanti pittori contemporanei che hanno operato in Piemonte ai confini con la Liguria a che attendono ancora di essere scoperti e riconosciuti per il loro giusto valore.

È stato pittore di prima impressione, senza regia. Ha dipinto il paesaggio e la natura morta con tocco veloce, accelerato, comunque sempre poetico, mai illustrativo. Dipingere gli fu naturale come respirare, come per i pittori autentici per cui l’arte è un atto vitale.

Nato con il talento della pittura e del colore,  con l’istinto del disegno e della forma, nella sua produzione migliore, più ispirata e originale, egli rifà, probabilmente senza saperlo, la “sua” storia dell’arte: dalle visioni elegiache di Corot alla luminosità cromatica degli impressionisti, alla sintesi formale della pittura di macchia toscana, ai motivi paesaggistici cari a Pelizza fino al Novecento attraverso le poetiche di Carrà, Morandi e De Pisis.

Le sue opere non sono mai impoverite dalla loro facile leggibilità perché nascondono profondità insospettate, da scoprire.

Senza timore di esagerare si può descrivere il rapporto di questo sacerdote pittore con la natura con le parole che l’autorevole critico e storico dell’arte Mario De Micheli ha usato per un altro artista del novecento, Eso Peluzzi, vissuto come Don Ponta tra il Piemonte e la Liguria: «[…] i suoi paesaggi vivono di una sensibilità diretta e immediata, frutto di una relazione spontanea con la natura dei luoghi, con il ritmo delle stagioni, una relazione che, con il passare degli anni, si è fatta più stretta e profonda».

Storia di un curato di campagna

di Francesco Butti

Ponta Paolo nasce l’8 settembre 1908 a Vocemola, frazione di Arquata Scrivia, nel quartiere del Pozzo, da Angelo e da Giustina Acquitanio, ultimogenito dopo quattro sorelle. Il padre, in questo lembo di provincia grama, provvede alle necessità della numerosa famiglia facendo il falegname-contadino; la madre conduce una rivendita di alimentari, con annessi osteria e forno.

Paolino, così detto per il suo fisico minuto, vive gli anni della fanciullezza come tutti i bambini di paese, solo seguito con qualche apprensione in più per la salute cagionevole (le vicende della sua lunga vita dimostreranno che era tale solo apparentemente).

All’età prevista prende a frequentare la scuola, dimostrando presto un’intelligenza vivace e curiosa e, soprattutto, una chiara predisposizione per il disegno. Una zia maestra gliene insegna i primi rudimenti, favorendo tale inclinazione; il piccolo allievo, da parte sua, si applica con entusiasmo. Nelle ore libere dalla scuola aiuta in casa e nei campi, con gli altri ragazzi pascola le bestie, come gli altri gira la campagna, a piedi scalzi, facendo crepitare, senza ferirsi, gli spuntoni delle stoppie. Per i boschi va alla ricerca dei nidi, impara a conoscere i significati precisi di ogni traccia, di ogni rumore; procura bisce, rane e chiocciole per nutrire una cicogna che il padre ha raccolto ferita nel fiume e che tiene nel pollaio. All’alba sente i segugi del padre che fanno scorrere la catena, inquieti e presaghi di caccia; impara a riconoscere il loro scagnare su per le colline, mentre segue il padre nell’aria misteriosa del mattino.

Alla scuola della natura impara la gioiosa bellezza dell’estate, la malinconia dell’autunno, la dolcezza della neve, i colori e i profumi della terra che rifiorisce. Vive un’infanzia felice, circondato dall’amorosa sollecitudine della madre e delle sorelle che fanno a gara per occuparsi di lui.

Quando d’improvviso viene a mancare il padre, Paolino, tredicenne, viene messo, riluttante, nel seminario di Stazzano. Durante i primi anni da seminarista si fa strada in lui, tra gli interessi ansiosi dell’adolescenza, quello bruciante per la pittura; spinto dalla certezza di voler essere un pittore, dipinge di nascosto, perché i superiori accolgono con dolente perplessità la sua passione, che ritengono distraente dagli studi.

Può dare libero sfogo al suo naturale istinto durante l’estate, quando torna a Vocemola per trascorrervi le vacanze. La sua personalità è in fermento; indeciso tra due prospettive, sotto l’impulso di una forte vitalità espressiva, soffoca infine la sua inquietudine.

Dopo l’ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1933, Don Paolino esercita il suo ministero, come vicario, a Borlasca, a Broni, a Variano. In seguito, dal 1938 al 1946, è parroco ad Agneto, in alta Val Borbera, e a Sarizzola Vescovato, nel Tortonese, dal 1946 al suo ritiro. Non sfugge di certo che tutta la sua missione sacerdotale è svolta in piccoli paesi; è probabilmente, al di là di valutazioni e determinazioni delle gerarchie ecclesiastiche sulle attitudini di Don Ponta, anche una scelta di vita.

Pur intellettualmente vivace, innovatore, dotato di una personalità complessa, professa e vive la pietà e la devozione in modo intensamente terrestre, prete da rogazioni e da tridui per la pioggia piuttosto che da sermoni eruditi o dissertazioni teologiche; preferisce quindi il rapporto con la gente di paese, aperta e genuina. Ai suoi fedeli può rivolgersi, nelle prediche domenicali, con parole semplici e piane; inoltre la spontaneità e la cordialità dei parrocchiani lo fanno sentire protetto e sicuro.

I superiori comprendono e amano questo loro sacerdote pittore che talvolta li fa stare in ansia per gli  atteggiamenti poco convenzionali, ma che in modo sincero canta le lodi del creato, anche con la musica e la pittura.

Ad Agneto, a Sarizzola, oltre alle funzioni religiose celebra i riti quotidiani dell’esistenza, vive coi parrocchiani nel modo più umano di stare insieme, partecipando alle loro gioie e ai loro dolori, si intrattiene a discutere e prevedere l’esito della vendemmia, a sera si attarda a ragionare, a predire il tempo del giorno seguente dall’alone della luna. Qui può seguire la passione per la caccia, forse non consona al suo stato di sacerdote. Lo ricordo inerpicarsi con agile magrezza per certe ripe, in vista delle torri di S. Alosio e, qualche volta, cacciatore maldestro, quasi personaggio tratto da qualche novella del Fucini, cedere alla debolezza di ostentare trofei altrui. Lo ricordo (lungo lo Scrivia a Vocemola) trarre dall’acqua la rete a bilancia brulicante di guizzi e di bagliori d’argento, poi riversati sulla tela.

Soprattutto, ad Agneto, a Sarizzola, a Vocemola, può dipingere: raffigura, con pennellate rapide e allo stesso tempo precise, le piccole cose della vita quotidiana, manifestandone la poesia. Esalta le forme e i volumi con l’uso della luce, con adatti accostamenti di colore; con lampi di biacca definisce il bordo di una scodella, fissa  i barbagli di rame di un paiolo ben lustrato, anima di una luce particolare un fungo adagiato su foglie di castagno, così come un raggio di sole lo rivela nella penombra del bosco.

La sua fonte primaria d’ispirazione è la natura, nei suoi vari aspetti, nelle varie stagioni: campi di messi e papaveri o velati di vapori appena dopo l’aratura, teorie di pioppi fitti contro il cielo, declivi curvi di filari nelle vigne. Raffigura borghi, suppellettili domestiche, selvaggina e fiori, umili fiordalisi e aristocratiche magnolie; oppure, con pennellate impoverite, essenziali, senza attardarsi nei dettagli, frutti tanto precisi da poterne trarre un catalogo, di quelli di un tempo, ora perduti.

Dipinge anche paesaggi marini; nei soggiorni estivi, presso una delle sorelle residente a Genova, ha scoperto il respiro del mare e cerca di tornarci, appena possibile. Raramente rappresenta la figura umana; ma a Sarizzola, forse come strumento d’esortazione morale, a ricordarci che anche gli irregolari, i reietti, sono creature di Dio, alcune volte ritrae il volto rugoso e barbuto del “Gallo”, bizzarro mendico itinerante che con sonori chicchirichì annuncia il suo arrivo alle case più ospitali, disposte ad aprire la madia e, soprattutto, la cantina. Nei suoi viaggi da Sarizzola a Tortona, dove si reca per le piccole pratiche legate al suo ministero o per rifornirsi di colori, mentre la corriera piega per le strette strade in mezzo alla campagna, fissa su piccoli cartoni una sensazione di luce, una prospettiva allettante, un filare di pioppi, un gelso mutilato, come spunti da sviluppare sulla tela.

Nel frattempo i suoi lavori cominciano a essere apprezzati; pochi dei quadri che espone nelle mostre personali, specie a Tortona, restano invenduti. Ma al successo di mercato, anche in ambito più vasto di quanto si possa pensare (e certamente fuori dagli stretti confini della terra d’origine o in cui esercita il suo ministero il sacerdote), non si accompagna analogo successo di critica e il riconoscimento degli ambienti artistici ufficiali (cosa, per altro, da Don Ponta non sollecitata). Indubbiamente la sua pittura piace, le sue opere assolvono egregiamente la funzione di intrattenimento, di appagamento del gusto, per cui un quadro è creato, come dimostra il successo popolare; ma non giovano alla sua globale figura di pittore periodi di involuzione, dovuti all’eccessivo ripetersi di un tema, quando invece una fase di ricerca feconda sarebbe da ritenersi conclusa. Infatti con troppa acquiescenza, su commissione, reitera soggetti apprezzati dal pubblico; inoltre talvolta non trova il coraggio di distruggere, senza rincrescimento, i lavori insoddisfacenti. Non cede volentieri le opere ben riuscite; quando decide di staccarsene delega alle sorelle il compito, che considera meschino, di contrattare il prezzo.

Don Ponta, il sacerdote pittore, la cui vita presenta qualche aspetto poco convenzionale, almeno per un religioso, come il praticare la caccia o il fumare voluttuosamente, si concede anche qualche civetteria d’artista, come il portare il basco, i capelli lunghi, l’apporre per attestazione a un dipinto l’acronimo P.P.P.P.P.P.P.P.P. (Ponta Paolo povero prete pittore pinse per poco prezzo).

 

Roberto Bergaglio (a cura di), Don Paolo Ponta Pittore, Edizioni Epoké (2015), pp. 9-16