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L’arte di Beppe Levrero, dal particolare all’universale

Da tre anni la galleria PagettoArte di Novi Ligure organizza esposizioni antologiche dedicate agli interpreti della pittura novese del secondo ’900, grazie al patrocinio del Comune e dell’associazione Novinterzapagina. Cinque sono gli artisti omaggiati fino a oggi dalle retrospettive allestite seguendo questo filo conduttore, ovvero Mario Maserati, Don Paolo Ponta (il sacerdote pittore), Beppe Levrero, Alberto Boschi e Luigi Podestà.

Claudio Pagetto spiega: «L’obiettivo verso cui, sin dall’inizio, abbiamo rivolto lo sguardo, attraverso la riproposizione e la riscoperta dell’opera degli interpreti storici dell’arte novese, è la creazione di un polo di confronto dialettico aperto ad artisti, appassionati, curiosi, studiosi e operatori del mondo dell’arte (e della cultura in generale) del nostro territorio. Questo obiettivo ci appare oggi sempre più raggiungibile. Questo ci conforta, ci dà nuovi entusiasmi e ci ingolosisce, spingendoci ad andare avanti. E l’ultima ciliegina è la mostra antologica Luigi Podestà, del quale il prossimo anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della scomparsa: la mostra è stata inaugurata lo scorso 25 novembre ed è visitabile fino a mercoledì 20 dicembre 2017. L’ingresso è libero».

Di seguito vi proponiamo un estratto dal catalogo realizzato in occasione della mostra antologica Beppe Levrero che si è tenuta alla galleria nel dicembre 2016 per ricordare il pittore a 30 anni dalla sua scomparsa.

Levrero e Novi

di Claudio Pagetto

Tocca a Levrero, finalmente. Quest’anno, nella ricorrenza del trentennale della sua scomparsa, avvenuta nell’Ottobre del 1986, Novinterzapagina, che già in precedenza ha allestito esposizioni di opere di altri interpreti storici dell’arte novese, gli dedica un’ampia rassegna antologica.
Prima dei preziosi – e copiosi – contributi della Critica specialistica, queste pagine introduttive si propongono di sottolineare un particolare aspetto della figura dell’Artista: il suo rapporto con la nostra città. Levrero è novese; Novi è fonte d’ispirazione delle sue opere più significative e comunque a noi più care; il suo imprinting artistico nasce qui. Levrero è profondamente legato alla sua Novi, anche se per lunghi periodi dimora altrove, alla ricerca di contatti con personaggi e movimenti culturali di respiro più ampio rispetto alle prospettive offerte dalla provincia, che lo tolgono dal baccello dell’autodidattica e che fanno di lui artista completo.
Levrero migra, ma torna sempre alla sua vita novese. Forse perché più serena che altrove, anche se meno stimolante e rara di acuti, con fermenti culturali presenti sì, ma annacquati, pigramente assopita nelle consuetudini della sua quotidianità.
Però a Novi ci sono i suoi amici, i collezionisti delle sue opere, i suoi estimatori. Che sanno capirlo ed apprezzarlo, da sempre. Ci sono Bellocchio e Bailo e Daglio e Chiapuzzo e Armella e Mascherini ed il giovane Contorbia che lo battezza, dechiricamente, il pictor optimus novese; ci sono Boschi ed il fido Podestà. Ed altri ancora. Non molti, ma tutti menti acute e palati raffinati di conoscitori d’arte, che sanno comprenderlo e con lui sanno dialogare, anche animatamente.
Gli stessi che hanno apprezzato l’opera di un’altra figura di spicco della storia recente della pittura novese. A cavallo del Novecento erano arrivati infatti gli strappi isolati e fascinosi della mano inquieta e scostante di quel geniaccio del Dini che però un bel giorno migrò sul lago e lì morì quando Levrero aveva poco più d’una ventina d’anni.
Tra i due, oltre che per ragioni anagrafiche, non c’è stata influenza diretta, neppure contaminazione, pittoricamente nessuna radice comune: tuttavia l’analogia, a ben cercare, si rivela a livello carismatico. Due segni forti, tracciati in ambiti culturali radicalmente diversi che hanno marcato cent’anni e più di storia artistica novese.
Irrequieto, istintivo, instabile il primo; incapace d’un linguaggio pittorico evolutivamente coerente, e, proprio per questo , autore ora di pagine illustrative delicatamente scritte a punta di pennello, ora di pagine infuocate tracciate dall’agitarsi della spatola nel colore fatto materia.
Tratto altrettanto forte, quello di Levrero. Penetrante, essenziale, rivelatore di intime tensioni. Eppure più coerente, stilisticamente identificabile in ogni lavoro. Già: lavoro, non a caso; perché di lavoro, di applicazione costante, di fatica e ricerca quotidiana si tratta, parlando di Levrero. Dagli anni di dura dedizione al disegno ed alla pittura sotto la guida di Agostino Bosìa, a Torino, all’incessante e tormentato impegno d’ogni giorno per tutto il resto della sua non breve vita: una vita data all’arte.
A tal proposito un ricordo tutto novese, che risale ai lontanissimi anni ‘70, quando nella saletta riunioni al secondo piano del Circolo (allora) Italsider, Levrero, invitato a tenere una conferenza-incontro sull’Arte, esordì dicendo che, non per caso, nell’Antico Greco la nostra “Arte” era “Technè”, ovvero convergenza tra creatività, da un lato, e abilità manuale dall’altro. è evidente come Levrero intendesse sottolineare l’indissolubile legame, alla base della creazione artistica, tra vena inventiva e padronanza dei fondamentali pratici necessari a manifestarla. L’aver estro, fantasia, immaginazione è dono di natura; il conseguimento della padronanza tecnica è frutto di impegnativo apprendistato e costante esercizio.
Levrero e Novi, ancora. è d’una evidenza persino banale come vi siano persone e cose senza le quali altre persone e cose non sarebbero le stesse. Cavalchiamo l’ovvietà e ci domandiamo come sarebbe, per chi è appassionato della pittura novese, Novi senza Levrero. Per chi lo conosce e lo ama, verrebbero meno un punto di riferimento importante, una presenza forte e stimolante; verrebbe a mancare il piacere di gustare i tratti del nostro territorio attraverso l’interpretazione e l’elaborazione creativa dell’Autore. Girovagando per le nostre campagne e per le vecchie vie della nostra Novi mille altre sensazioni certamente si proverebbero, ma non più quelle tormentate e struggenti suggerite dalla mano di Levrero.
Dalle vedute dal vivo degli anni Trenta, alle rielaborazioni in studio di appunti grafici qui e là raccolti ed alle nature morte degli anni successivi, fino alla trasfigurazione esplosiva della piena maturità. Sempre senza caduta di tensione, lontano da ogni tentazione decorativistica, costantemente alla ricerca dell’essenziale. Il vero di Levrero.
Prima la Pieve, la piazza della Collegiata, il bar della Beppa, corso Piave, il Ponte dello Zerbo, il Borgo Storto, la Stazione, la Chiesa dei Cappuccini, le strade per Gavi e Pasturana, la costa del Limonotto, la Mazzola, le cascine di Raggio e, dopo, la campagna novese in genere, quasi solo la campagna novese; bruciata dal sole, sferzata dal vento, coperta di neve, bloccata dal gelo: eletta ad icona e fatta palestra per l’esercizio quasi ossessivo di mescola di colori attraverso tratti sapienti. Tratti intensi, sicuri, profondi, mai inutili. Il segno di Levrero.
Le cose più belle, o per lo meno a noi di Novi più care, nascono lassù, in quella torretta-studio di via Abba, osservatorio alto – non solo per collocazione fisica – , laboratorio di feconda genialità e serio lavoro. Ma anche luogo di incontro e confronto tra cultori d’arte, come ebbe a ricordare Aurelio Bellocchio in un’appassionata “Lettera a Levrero” pubblicata su Novinostra nel’63.
L’illusione, anche consapevole, edulcora la vita e porta per mano in una dimensione in cui è facile ambientarsi e comodo alloggiare, perché lì fantasia e realtà finiscono fiabescamente per intrecciarsi. Illudiamoci allora, perché ci piacerebbe che per tanto tempo ancora, da quel 1986 in poi, in quella torretta di via Abba, avessero continuato a veleggiare – e lo facessero tuttora –, tra fumi e profumi, le parole dette in quegli incontri: testimonianze e tesori del sapere e dell’intelligenza novese. Metafora per scongiurare la frammentazione, la dispersione e, più colpevolmente, il disinteresse per le idee, per le acquisizioni intellettuali, per le conoscenze e le creazioni delle nostre genti. In una parola, per la nostra Cultura.
Torniamo a Levrero, a quella torretta di via Abba, suo studio e rifugio. Da lassù, comunque, una presenza creativa, una partecipazione costante – seppur defilata – alla vita della città, ai ritmi delle sue pratiche giornaliere. Ogni tanto una discesa tra gli ingranaggi dolcemente e caramente rumorosi della quotidianità novese. Per liberare la mente e mettere ordine tra gli impulsi dell’inventiva che in essa si agitano; ma anche, in fondo, per assorbire nuovi vigori e ricercare nuove ispirazioni.
Eccole, ancor oggi presenti nella memoria di molti, le sue abituali uscite, strappi non solo alla vita familiare, ma soprattutto alla solitudine, condizione necessaria alla creazione: le commissioni d’ogni giorno col passo svelto di chi per abitudine passa a rembo perché non ha tempo da perdere, le frequenti visite al mentore Licio Chiapuzzo, fine intenditore d’arte, nell’appartamento sopra il forno, le soste nei Caffè che si affacciano lungo la via Girardengo. Levrero è colto e va da sé che anche i suoi interlocutori lo debbano essere: pure al bar, naturale luogo di variopinta aggregazione negli anni della seconda metà del secolo scorso, la compagnia è selezionata. C’è chi ricorda le sue conversazioni nella saletta interna di Carletto con l’umanista Ottavio Morisani e l’aperitivo, all’Haiti o da Mario e Gianni, a mezzogiorno di quasi ogni giorno, ma al Sabato rigorosamente: rito piacevole e rilassante da consumarsi con i soliti Vincenzo Armella, Remo Padrini, Franco Alignani, Nicolino Massa, Mario Figaro e qualcun altro ancora con cui avesse senso discutere, anche animatamente, di mille cose sì, ma, soprattutto, d’arte. Molto prima le ripetute vasche in Centro, sino a tarda ora, a ragionare con Vincenzo Armella, eccellente musicofilo e virtuoso del pianoforte, in compagnia del quale e di alcuni altri eletti si ricordano anche le audizioni di musica classica nella sacrestia di don Motta, in San Nicolò, attorno al giradischi con i padelloni di vinile. Degli ultimi anni sono poi le puntate, nel tardo pomeriggio, al Circolo Italsider per incontrare al tavolino d’ingresso del bar (di fronte al bancone-palcoscenico di Cesarina, Nando e Censino) l’amico, discepolo, collega Alberto Boschi. Ricordi sparsi, carpiti qua e là e disordinatamente riportati.
In piedi all’angolo di via G. C. Abba con via Girardengo, tra le vetrine di Calvo; a passo svelto sotto i Portici Vecchi; seduto a tavolino al Centralino o al Cervinia; ancora in piedi, quasi appoggiato di schiena al palazzo dei Dellepiane, a metter a fuoco la Collegiata o chissà cos’altro; dal Merigo, in Tabaccheria; infilato nella poltroncina di metallo cromato – recuperata tra le macerie del bombardamento del ’44 – nella bottega di mio padre. Minuto, spigoloso, aquilino, i capelli canuti sbrigativamente tirati all’indietro, le dita ambrate dall’inesauribile sigaretta, lo sguardo fisso e penetrante, talvolta assorto, di chi vede più di te, gentile, ma deciso e fermo nelle proprie convinzioni. Lì e così – diapositive metà anni sessanta – lo ricordo io.
Tornano alla mente di qualcuno anche i tratti salienti della sua personalità, qui di seguito delineati con segni brevi ed essenziali, lontano d’ogni retorica: un po’ alla Levrero, vien da dire. Un carattere non facile. Sua la presunzione – forse solo apparente – di chi sa, perché a sapere è giunto attraverso l’esercizio quotidiano della ricerca e dello studio e, di conseguenza, accetta malvolentieri il confronto con chi quel faticoso cammino non ha percorso o ne ha saltato a piè pari troppe tappe. Sua, al tempo stesso, l’umiltà di chi vuol continuare ad apprendere, immagazzinare e rielaborare. Per poi trasmettere, proporre, coinvolgere attingendo dalla tavolozza. Nella consapevolezza, crediamo, dell’ineluttabilità d’una vita – la sua – da consumarsi nell’Arte.
La creazione artistica costituisce infatti l’elemento essenziale del suo vivere: egli dipinge e basta. Ma non pochi sono gli ostacoli che incontra sulla sua strada. Occorre ricordare come l’idea fissa, l’ambizione d’ogni artista sia quella di comunicare e dialogare con un pubblico sempre più vasto attraverso le proprie opere e quindi sia necessario farle conoscere, farle vedere, con la speranza che vengano comprese ed apprezzate e, ovviamente, diventino oggetto di desiderio, siano vendute ed entrino a far parte di collezioni private e pubbliche sempre più importanti. è un duro impegno che inevitabilmente occupa e distrae la mente dell’artista e riduce materialmente il tempo da dedicare alla creazione, ma che occorre affrontare per non correre il rischio, crogiolandosi in eroica solitudine, di perdere il contatto col “Mercato”. Risulta infatti assai improbabile che il consenso ed il successo derivino direttamente dal pubblico: è di fatto il Mercato a sancirli. Inevitabile perciò il passaggio attraverso l’attività promozionale di Critici, Curatori, Giornalisti, Galleristi, Mediatori.
Ma dalle sirene del Mercato – possiamo decisamente affermarlo – Levrero non si lascia più di tanto attrarre, al di là della logica e comprensibile attenzione alla corretta propaganda della sua produzione. A tal proposito giova ricordare che, nonostante la personale conoscenza e l’abituale frequentazione, soprattutto all’ombra della Mole, con i maggiori artisti dell’epoca, dei quali gode la stima, Levrero è riluttante ad entrare ufficialmente a far parte di gruppi o avanguardie. Anche se mettersi insieme significa moltiplicare le forze dei singoli, spesso bypassando i consueti mediatori ed intermediari e dare così vita ad una forte azione autopromozionale di avvicinamento più diretto al pubblico. Levrero tira dritto per la sua strada.
Levrero nell’arco della sua esistenza esporta le immagini della sua Novi (unitamente ad altre a lui care come Venezia, Camogli ed il mare di Liguria, le Cattedrali, i frutti degli anni vissuti a Torino e del soggiorno romano) in ogni dove, proponendosi in personali e collettive in Italia ed all’estero. Ottiene consensi di critica ed innumerevoli premi. Come è stato autorevolmente affermato, rientra nel novero dei primi cinquanta paesaggisti italiani.
Dopo il ’70, sull’onda dei successi conseguiti in quegli anni – in particolare all’indomani della personale del ’71, al refettorio delle Pascoli, che smuove le chete acque su cui pigramente veleggiano gli interessi artistici locali – la borghesia elegge Levrero a paladino delle proprie cognizioni pittoriche. Forse senza comprenderlo a fondo: il fenomeno sociale pare travalicare l’interesse culturale. Curioso infatti: per Novi Levrero diventa un’icona. Risultato, questo, nella sostanza assolutamente meritato, in virtù del valore intrinseco delle sue opere, ma conseguito anche a seguito dell’innescarsi di meccanismi psicologici e sociali che tendono a delinearlo come un fatto di moda, con chiare implicanze simboliche.
Così l’abitazione del professionista non può non fregiarsi di un Levrero; un Levrero è dono ambìto e, proprio per questo, prezioso; un Levrero è oggetto da esporre e del cui possesso sentirsi orgogliosi. Sono sempre le mareggiate liguri, le lagune venete, le nature morte con fiori, le guglie appuntite delle Cattedrali ed i soli attorcigliati nel cielo delle campagne novesi a far bella mostra di sé ed a trasmettere emozioni, per chi le sa cogliere, all’interno di collezioni private e pubbliche della nostra città.
Oggi però, a distanza di decine d’anni da quei tempi colorati d’ottimismo, è triste accorgersi come quelle stesse opere si trovino in molti casi ancora lì, ove furono collocate allora; non siano passate di mano; raramente siano state traslocate nelle giovani case dei figli e dei nipoti dei primi acquirenti; non siano state più mosse per partecipare a nuove esposizioni; non siano state fotografate allo scopo di comparire su cataloghi d’arte più recenti o su riviste specializzate o, più semplicemente, su fogli locali; non abbiano insomma suscitato nuovo interesse. Le luci della ribalta, su di esse un tempo proiettate, si sono negli anni fortemente affievolite. Quelle opere paiono non scintillare più, imprigionate dal vetro ormai annebbiato delle cornici a cassetta col pass di tela chiara rigorosamente in uso allora. A confezionarle – nota di storia e costume locale – quasi sempre Bagnasco, di via Roma, uno degli innumerevoli artigiani dalle mani d’oro che a quei tempi animavano Novi e contribuivano a renderla ricca e piacevolmente vivibile.
I lavori “del Beppe” dunque sembrano non essere più oggetto di particolare attenzione. Di certo hanno perduto solamente in mondanità, non in credibilità artistica: è infatti scontato come continuino ad essere apprezzati da chi conosce ed ama veramente la sua pittura. Risulta tuttavia innegabile come il nome di Levrero sia rimasto quasi nascosto tra i risvolti d’una vita cittadina che dimostra sempre meno attenzione alla Cultura e non considera come affronto alla sua Storia rischiare di “perdere” in qualche modo il “suo” Levrero.
C’è chi da tempo sta lavorando perchè questo non accada e possa attuarsi, al contrario, una riproposizione conoscitiva e critica dell’opera di Levrero, affinché Levrero si riappropri del ruolo che gli compete nel panorama artistico nazionale, oltre che locale, con la convinzione che per Novi questa operazione si configuri come importante occasione a valenza culturale. Ben sapendo che Cultura è, oltre che indispensabile strumento di crescita individuale e collettiva, anche – più pragmaticamente – formidabile veicolo promozionale per il nostro territorio.
Rivalutare Levrero comporta (ri)proporre nelle giuste sedi le sue opere, (ri)presentarle a livello mediatico, fare in modo che siano (ri)viste ed ancor più conosciute, siano nuovamente oggetto di indagine critica, siano spunto per incontri con operatori culturali qualificati, siano anche e soprattutto considerate in chiave didattica da parte di docenti d’arte. Dire di Levrero ai giovani significa infatti ripercorrere con loro le strade della pittura del tardo Ottocento e del Novecento piemontese incrociando l’opera di Fontanesi, Bistolfi, Bosia, Carrà, Casorati, Menzio, Morando, Spazzapan, Chessa, Paolucci – con molti dei quali Levrero ebbe diretti rapporti – e, più oltre, significa avvicinarsi ai pilastri della pittura europea dello stesso periodo, da Cezanne a Van Gogh a Heckel a Kokoschka, dai quali Levrero trasse stimoli, ispirazioni e suggestioni creative. “Recuperare” Levrero, dunque: la prima mossa spetta, ovviamente, a Novi, alla “sua” Novi. L’Antologica di Levrero, promossa da Novinterzapagina in occasione del trentennale della scomparsa dell’Artista, costituisce di per sè già occasione d’incontro tra quanti condividano gli obiettivi cui sopra si è fatto cenno e desiderino offrire la propria collaborazione al fine di conseguirli. Per dar vita ad un’operazione culturale a lungo termine, autorevole ed articolata, che peschi in profondità seguendo un percorso serio e coerente: un ardere lento, non un falò.

In questo senso non posso non rivolgere un sentito ringraziamento a quanti, intenzionati per svariati motivi a celebrare il ricordo dell’Autore, hanno aderito all’iniziativa e, di conseguenza, hanno reso possibile l’allestimento della mostra e la realizzazione del presente catalogo: ai collezionisti, soprattutto novesi, delle opere di Levrero, che ne hanno concesso sia la presentazione in sala sia la riproduzione fotografica, permettendoci così di proporre, nel quadro di un’ampia rassegna di dipinti presenti nelle collezioni d’arte private della nostra città, numerosissimi inediti; a chi ci ha offerto i frutti della propria esperienza avendo in passato , a vario titolo, collaborato nel dar vita ad altre mostre dell’artista agevolando così il nostro lavoro; a coloro che hanno personalmente conosciuto e frequentato Beppe Levrero e dei ricordi del suo vivere novese ci hanno fatto partecipi consentendoci in tal modo di delinearne tratti personali meno noti. Un ringraziamento particolare a Rocchino Muliere, Sindaco di Novi, sempre vicino, anche e soprattutto a livello personale, alle iniziative di Novinterzapagina; al figlio di Beppe Levrero, Giuliano, che ci ha aperto, non solo materialmente, le porte del Palazzo del Governatore (casa Levrero) producendo ricca e preziosa documentazione; ad Alberto Boschi, designato dallo stesso Levrero suo erede nel panorama della pittura novese – e non solo –, artista e uomo di Cultura che, con grande sensibilità e scientifica applicazione, ha curato, mettendovi definitivo ordine, la copiosa documentazione critica raccolta.

A. Boschi, C. Pagetto (a cura di), Beppe Levrero, Edizioni Epoké (2016), pp. 8-14