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Come si voterà il 4 marzo?

Il Rosatellum 2.0 alla prova del prossimo 4 marzo

Il rientro dalle feste ci ha consegnato la data ufficiale delle prossime elezioni politiche: meno di due mesi ci separano dal 4 marzo 2018 e iniziano le manovre di assestamento dello scacchiere politico. L’avvicinarsi dell’appuntamento alle urne enfatizza l’effetto Rosatellum 2.0: la nuova legge elettorale ha incoraggiato la nascita di nuove formazioni politiche, che tendono a raccogliere consensi, sottraendoli in parte ai partiti principali.

In estrema sintesi, il Rosatellum è un sistema di voto misto che prevede un 36% di collegi uninominali e per la restante parte collegi plurinominali. Nonostante la presenza di collegi uninominali e nonostante la possibilità di unirsi in coalizione, si tratta di una legge elettorale a vocazione proporzionale (1/3 maggioritaria e 2/3 proporzionale).

Nei collegi uninominali è eletto il candidato più votato, in quelli plurinominali l’assegnazione dei seggi avviene con metodo proporzionale tra le liste e le coalizioni che hanno superato le soglie di sbarramento.

Il sistema di voto non prevede infatti un premio di maggioranza, ma una soglia di sbarramento del 3% sotto la quale una lista – apparentata o non – non ha diritto di accesso in Parlamento. Se una lista che corre in coalizione non raggiunge il 3%, ma resta sopra l’1, allora i suoi voti vengono spartiti tra gli altri partiti dell’alleanza. I voti dati a una lista coalizzata che resta sotto l’1 vengono dispersi. Per le coalizioni è prevista la soglia del 10%.

Da cosa deriva il Rosatellum 2.0?

Per capire la nuova legge elettorale e soprattutto come influenzerà l’esito delle prossime politiche, è necessario innanzitutto ripercorrene la genesi e chiarire le differenze tra i due sistemi che la compongono, in percentuali diverse, ovvero il maggioritario e il proporzionale.

Il tema è spesso ritenuto ostico anche per gli addetti ai lavori, ma la letteratura in materia può venirci in aiuto. Qui vi proponiamo il saggio Elettori ed Eletti che, come recita il sottotitolo Maggioritario e proporzionale nella storia d’Italia, ripercorre le tappe della legislazione elettorale del Paese dall’Unità d’Italia ad oggi e spiega i meccanismi dei principali sistemi di voto.

Il saggio di Federico Fornaro, Senatore dal 2013, intende dare al lettore le coordinate per capire come i voti si trasformano in seggi, a seconda del sistema elettorale applicato, e per rispondere alla domanda di stretta attualità: in che modo una legge elettorale lega elettori ed eletti?

Di seguito vi proponiamo un estratto dal primo capitolo, che si concentra appunto sugli aspetti tecnici delle formule elettorali, con la convinzione che la contrapposizione tra cultura maggioritaria e cultura proporzionale non possa essere trasformata in uno scontro tra tifoserie.

«Le due grandi famiglie: maggioritario e proporzionale»

Esattamente come i sistemi, le formule elettorali sono riconducibili a due grandi famiglie: quelle maggioritarie e quelle proporzionali. Ciò è vero ancora oggi, anche se, come vedremo in seguito, nella pratica, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si sono diffuse nel Mondo le “formule miste”, in cui si combinano meccanismi tipici sia delle formule proporzionali sia di quelle maggioritarie.
Partiamo da una prima distinzione di fondo. I sistemi maggioritari tendono ad attribuire i seggi ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza di voti, di norma, in collegi uninominali: «il loro intento non è solo di eleggere un parlamento, ma anche di eleggere contestualmente (seppur per implicazione) il governo» (Sartori 2013: 17).
Nei sistemi proporzionali, invece, l’obiettivo è quello di raggiungere una corrispondenza tra distribuzione dei seggi e i voti ottenuti dalle diverse liste in competizione, anche se «è sbagliato assumere che la proporzionalità è stabilita soltanto1 dalle formule di traduzione di voti in seggi; essa è ancor più decisivamente determinata dalla dimensione delle circoscrizioni» (Sartori 2013: 20).
Nella storia, la formula maggioritaria ha storicamente preceduto quella proporzionale, essendo stata quest’ultima gradualmente introdotta in molte nazioni europee a partire dalla seconda metà del XIX secolo, allorquando il suffragio ristretto per censo fu progressivamente sostituito dal suffragio universale (prima maschile e poi anche femminile). Il sistema proporzionale, infatti, venne ritenuto più idoneo a garantire il pluralismo politico che si andava esprimendo con la nascita e lo sviluppo di partiti politici nazionali.
Dal canto suo, la formula maggioritaria affonda le radici nella polis dell’antica Grecia, dove la “regola della maggioranza” era largamente applicata nelle diverse consultazioni a cui erano chiamati a partecipare i cittadini; analogo principio venne utilizzato nel Medioevo, con una significativa influenza del diritto canonico2, con l’obiettivo fondamentale che le decisioni assunte dalla maggioranza dovessero poi essere accettate dalla minoranza (Oliviero 2007: 5).
Il principio proporzionale ha, invece, radici storiche assai più recenti che si fanno comunemente risalire all’intervento del Duca di Richmond alla Camera dei Lord nel 1780, anche se un vero e proprio movimento proporzionalista iniziò a manifestarsi in Europa solamente a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Fu, infatti, il giurista britannico Thomas Hare, nel 1857, a presentare per la prima volta la formula proporzionale a mezzo del voto singolo trasferibile3 che, attraverso successivi saggi, lo porterà all’elaborazione di una vera e propria «teoria del principio proporzionale» (Oliviero 2007: 5-6 e Piretti 1998: 25-26).
Il dibattito tra i sostenitori delle due formule elettorali ha visto i fautori del maggioritario mettere sotto accusa l’applicazione del principio proporzionale per l’incentivazione al frazionamento partitico e parlamentare. Determinando la necessità di governi di coalizione, esso tenderebbe a produrre instabilità e un’eccessiva influenza dei gruppi dirigenti partitici sulle istituzioni.
Sul fronte avverso, la critica maggiore alla formula maggioritaria è quella di una riduzione del tasso di democraticità delle elezioni, fino a giungere, in casi limite, a dare la maggioranza dei seggi alla lista (o coalizione) che non ha ottenuto il maggior numero di voti. Secondo il politologo olandese Arend Lijphart «in molte società profondamente divise, la regola maggioritaria porta alla dittatura della maggioranza e alla guerra civile e non alla democrazia» (Lijphart, 2014: 57). A sostegno della sua tesi radicale, Lijphart porta le sanguinose vicende novecentesche degli scontri tra la maggioranza protestante e la minoranza cattolica in Irlanda del Nord.

Federico Fornaro, Elettori ed eletti, Edizioni Epoké, 2017, pp. 32-34