A braccia aperte
Ecco il primo capitolo del romanzo Un guscio di noce tra le onde di Davide Tarozzi.
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Capitolo uno
A braccia aperte
Sto guidando per tornare a casa, quando una chiamata interrompe brutalmente la canzone che sto ascoltando..
Non conosco il numero. Di solito rifiuto gli sconosciuti e poi controllo su internet che non si tratti di un call center. Vogliono sempre vendermi qualcosa: fotovoltaico, contratti televisivi, telefonici, sistemi finanziari, di allarme, depuratori, aspirapolvere e praticamente qualunque altro oggetto vendibile. Li detesto. Negli ultimi tempi mi chiamano insistentemente a tutte le ore e non è nemmeno sufficiente dissuaderli dal chiamare, perché qualcuno ha insistito comunque per una quarantina di volte prima di desistere.
All’inizio rispondevo con educazione poi, esasperato, ho preso a insultare tutti i centralinisti e a bloccare i numeri. Ho lavorato anche io un call center e mi sono convinto che non dovrebbero esistere simili sistemi di vendita.
– Pronto?
Non si sente niente.
– Pronto? Pronto?
Alzo la voce perché il bluetooth della macchina non sempre funziona bene. Non sento nulla anche se il display indica chiaramente l’inizio della conversazione. Il cellulare è sul sedile del passeggero e dal microfono sento arrivare dei suoni indistinti.
Merda. Si è collegato male.
Lo recupero e lo porto all’orecchio.
– Emilio Giordano?
– Mi dica.
Rispondo piuttosto freddamente.
Dopo l’esperienza al call center mi sono abituato a non dire mai sì, per evitare che ricomponendo la registrazione mi piazzino qualcosa che non ho chiesto.
Ricordo ancora di Sergio il venditore che aveva rifilato venti schede sim in più rispetto a quelle richieste dalla Croce Verde perché doveva raggiungere l’obiettivo mensile.
– Sono Giorgia Traverso dell’associazione A Braccia Aperte. Abbiamo ricevuto il suo curriculum qualche mese fa e la contattiamo per un colloquio conoscitivo. Sarebbe disponibile?
– Ah, Buongiorno! Sì, sì certo!
Cambio subito tono passando da scazzato a disponibilissimo, e già mi vergogno per l’imbarazzante figura fatta nel rispondere al telefono. Iniziamo male.
– Bene. Se fosse mercoledì alle 11?
– Aspetti che devo controllare in agenda.
Mi fermo in fretta nello spiazzo sulla mia destra: la macchina sobbalza per il dislivello tra l’asfalto e lo sterrato. Inizio a cercare nel mio zaino, frugando disperatamente e chiedo un attimo di pazienza alla mia interlocutrice.
– Sì, ci sono, nessun problema.
– Perfetto. La nostra sede è in Viale Libertà 66. Sa dove si trova? È in zona stadio. Deve salire al quarto piano, c’è una targa che indica i nostri uffici. Chieda di me.
– Va bene, grazie.
– A mercoledì allora, buona giornata.
– Anche a lei.
Non pensavo mi avrebbero chiamato, ma questo colloquio capita veramente nel momento opportuno. Sono stanco di stare in tournée. Non ho veramente più voglia di fare il tecnico. Il lavoro sta calando, sono sempre in giro e soprattutto non sto più bene come all’inizio. Da quando sono cambiati gli interpreti il clima è pesante e faticoso, ne ho veramente abbastanza di sentirmi trattato male per pochi soldi.
Mi guardo intorno mentre sono ancora fermo con la macchina accesa e vedo un cumulo di immondizia e una lavatrice abbandonata poco più in là, buttata dietro il tronco di un albero.
Oltre le fronde, campi arati in mezzo a una insolita foschia di tarda mattinata.
Il giorno del colloquio non mi impegno a vestirmi in maniera particolarmente curata, indosso jeans e felpa. Sono passati gli anni in cui mettevo camicia e maglioncini perché, si sa, la prima impressione è fondamentale. A distanza di tempo ho capito quanto sia vero, ma a volte per fare buona impressione la camicia non è indispensabile. Soprattutto perché a fare la differenza è come ci sente dentro, la consapevolezza del proprio valore. E già su questo potrei cascare male.
Diversamente dal solito non arrivo in anticipo ma semplicemente all’ora giusta.
Chiedo di Giorgia Traverso che mi si presenta stringendomi la mano, è una ragazza molto magra, dai modi piuttosto affettati. Mi fa aspettare cinque minuti e poi mi fa accomodare nel suo ufficio, una stanza con un grande tavolo condiviso da altre persone; alle pareti sono affissi articoli di giornali oltre a foto di donne e bambini africani.
Le domande sono quelle di rito a proposito degli studi e delle esperienze lavorative. Mi chiede in particolare le lingue parlate oltre all’italiano. Francese in maniera molto scolastica e inglese già molto più fluente, ho avuto modo di esercitarlo nei tre anni precedenti in cui sono stato in giro con la compa11
gnia teatrale e negli ultimi due ho anche iniziato a guardare solo film in lingua originale oltre a leggere qualche romanzo non tradotto. Non sembra interessata a testare le mie capacità linguistiche e questo in parte mi tranquillizza perché mi mette a disagio parlare in inglese davanti agli altri. Ho l’impressione che non sia una professionista per quanto riguarda la selezione del personale e infatti si limita ad alcune domande molto superficiali. Mi spiega che avrebbero bisogno di una persona di supporto nella gestione di alcuni appartamenti di pakistani per aiutare l’operatrice che se ne occupa attualmente. Il colloquio con Giorgia ha l’aria di uno screening iniziale e infatti me lo conferma lei stessa quando dice di aver terminato la sua parte e di dover aspettare che ci sia la Dottoressa. L’atmosfera diventa più distesa e si parla del più e del meno, rimanendo comunque sulle mie esperienze. Penso serva a entrambi, a me per cercare di buttare sul piatto qualcosa in più e a loro per avere qualche informazione ulteriore.
Quando finalmente entro nello studio della dottoressa mi trovo faccia a faccia con il capo dell’associazione che siede dietro una scrivania antica e non eccessivamente grande. Una piccola donna tra i sessanta e i settanta anni, sorridente e cordiale. Mi fa accomodare e mi domanda di me, della mia esperienza, cosa sto facendo e cosa ho fatto. I toni non sono formali ma molto amichevoli. Penso lo siano anche troppo, mi arrivano artefatti, ma non ha importanza.
All’angolo del muro c’è un’altra scrivania con un ragazzo con la coda che si limita a salutare sorridendo, senza distogliere troppo lo sguardo dal computer.
La donna attacca a parlare e sembra stia improvvisando ma è tutta un’apparenza, perché in realtà dimostra di conoscere molto bene il mio curriculum. Si compiace della laurea in Psicologia e mi chiede spiegazioni a proposito del salto dall’ambito teatrale a quello dell’accoglienza, senza perdere occasione per dimostrare di conoscere molto bene anche l’ambiente dello spettacolo, ventilando l’ipotesi di poter organizzare qualcosa con i loro ragazzi. Spiego che avendo in previsione di iniziare la scuola di Psicoterapia nell’anno a venire, ho pensato che fosse sensato avvicinarmi all’ambiente del sociale e abbandonare quello che era stato un mio ambito di passaggio. Ne approfitto per blindare la scuola: faccio presente che non voglio saltare nessuna lezione e che dovrei anche fare il tirocinio.
– Assolutamente, ci mancherebbe. Siamo i primi a investire nella formazione quindi siamo ben contenti di sostenerti in questa tua scelta!
Mi dice in modo gioviale e senza alcuna esitazione. Poi chiede in termini di tempo di quanto si tratterebbe. Se lo fa ripetere un paio di volte anche se penso che gli fosse tutto chiaro già da subito.
– Ah beh, allora non c’è nessun problema. Noi avremmo bisogno di qualcuno che faccia un po’ di più di un part time, perché altrimenti non si riesce a mandare avanti il lavoro.
Mi sento di rassicurarla in proposito anche perché il calendario teatrale ormai copre solo i fine settimana e la scuola è compatibile con il lavoro. Sembra che il colloquio sia andato piuttosto bene, ho ottenuto quello di cui avevo bisogno e mi sono sentito incredibilmente efficace come non mi era mai capitato. A fine conversazione sottolineo di aver recentemente scoperto, durante un corso sulla selezione del personale, di possedere anche buone capacità di negoziazione.
– Bene! Vedrai che la capacità di negoziare ti servirà con i ragazzi! Benvenuto in A Braccia Aperte!
Si congeda in maniera decisa dicendo di avere molto da fare e di parlare delle condizioni contrattuali direttamente con la sua collaboratrice che è lei stessa a chiamare.
Giorgia mi raggiunge e in corridoio mi spiega che per i primi tre mesi sarò in prova con un contratto di collaborazione occasionale a trenta ore alla settimana da segnare su un foglio da consegnare a fine mese per un totale di 1.000 euro al mese più rimborsi chilometrici.
Mi dice di presentarmi il lunedì della settimana successiva per la formazione e l’affiancamento.
Esco decisamente soddisfatto e contento di riuscire a prendere uno stipendio dignitoso visto che fino a quel momento della mia vita avevo ricevuto raramente uno stipendio simile.
Il primo giorno di lavoro la sfortuna vuole che nevichi. Gli eventi eccezionali vengono sempre celebrati con qualcosa di altrettanto eccezionale.
Sono in ansia di arrivare in ritardo e invece, non solo arrivo puntuale, ma trovo pure parcheggio sotto l’ufficio. È il genere di eventi che solitamente finisco per pagare molto cari successivamente, con una serie di sfortune che pareggiano l’equilibrio cosmico.
Il periodo di formazione scorre molto in fretta, sostanzialmente passo due giornate a leggere libri sulle statistiche dell’immigrazione, le vie principali di arrivo, il funzionamento dell’accoglienza, cas, sprar, frontex, Protezione Umanitaria, sussidiaria, internazionale, la Convenzione di Dublino e tante cose che non riesco memorizzare, insieme all’organigramma dell’associazione e a tutti i numeri dei colleghi, senza che abbia ancora avuto modo di presentarmi o di associarli a un volto. In tutto questo mi segue Elena, una ragazza sulla trentina che in maniera molto accogliente, mi rassicura sul fatto che, ovviamente, all’iniziò sarà tutto un po’ fumoso ma procedendo oltre, le cose si faranno più chiare. Sarà lei a programmare la mia successiva settimana di lavoro, indicandomi con chi dovrò trascorrere le giornate in affiancamento.
Guardandomi intorno vedo un gran viavai e mi sembra che la percentuale di giovani sia piuttosto alta, con un clima che pare, tutto sommato, collaborativo. Gli uffici sono nuovi e ben tenuti anche se lo spazio per gli operatori si trova nella stessa stanza della cucina e ci sono diversi computer disposti sopra un tavolo piuttosto piccolo. Elena mi spiega che questi sono a disposizione di tutti, mentre gli altri sono personali di chi utilizza la scrivania. Ne approfitta per introdurmi ai colleghi presenti e quindi conosco Margherita, Mara, Luis e Anton senza avere la minima idea di che cosa si occupino e di quale sia il loro ruolo all’interno dell’associazione.
Quando mi trovo momentaneamente solo controllo nell’organigramma, ma continuo a non avere le idee chiare su chi faccia cosa. Ci sono diverse aree di competenza ma non riesco a rintracciare nessuno di quei nomi a eccezione di Luis che pare faccia capo alla logistica. Ogni volta che passa qualcuno di nuovo Elena è attentissima a introdurmi come il nuovo collega e io ogni volta allungo la mano, sorrido e rispondo alle frasi di circostanza che mi vengono rivolte. Ancora non so rispondere su quali siano le mie mansioni dentro A Braccia Aperte, perché in realtà non so nemmeno cosa faccia un operatore nell’ambito dell’accoglienza rifugiati, come dovrei essere io.
Terzo giorno, finalmente sul campo.
La neve è già completamente sparita e c’è il sole. Dovrei passare la mattina con Mara. Ci troviamo davanti alla stazione per raggiungere un appartamento di ragazzi nigeriani non molto distante. Si presenta puntuale all’appuntamento, indossando una lunga giacca imbottita verde e un capello grande di lana per contenere le treccine. Ha una camminata molto decisa, come quella di chi non ha tempo da perdere e infatti fatico un poco a stare al suo passo. Sorride ed è gentile ma ho l’impressione che tenga una certa distanza professionale, per cautela propria, più che per diffidenza nei confronti dell’altro. Sceglie accuratamente quello che vuole o non vuole dire.
Entriamo nell’appartamento e ci sediamo in cucina. Veniamo accolti da due ragazzi visibilmente assonnati. Mara attacca il suo cellulare a caricare alla presa di corrente e poi inizia a parlare con uno dei due, un ragazzo slanciato con capelli ricci e pizzetto lungo. Chiede se hanno tutto e come stanno ma lui, Ace, risponde in tono tra il polemico e il sarcastico che va molto male perché è un mese che non riceve il Pocket Money e che vuole i soldi perché ne ha bisogno. Mentre lo dice guarda verso l’alto e agita le braccia in maniera teatrale, da gangsta americano. Fatico a capire il suo inglese perché qualche parola mi arriva masticata e con delle intonazioni che non mi fanno distinguere i termini ma, in generale, riesco a cogliere il senso del discorso. Mara cerca di essere assertiva nel rispondere, ma vedo che dopo un po’ che le lamentele diventano ripetitive, si spazientisce leggermente. Approfitta di un attimo in cui Ace va in un’altra stanza per seguirlo. Rimango nella cucina con un ragazzo che pulisce i fornelli, mentre dall’altra parte del muro sento discutere con toni accesi.
Quando Mara esce dalla stanza, lasciamo l’appartamento per recarci da altri beneficiari residenti non molto lontano. Lungo la camminata mi spiega che solitamente i nigeriani sono più rumorosi rispetto ad altri e anche abbastanza teatrali nel modo di fare, nonché fissati con la crema nivea, che chiedono in continuazione. Mi racconta di avere anche lei origini africane, ma di venire da uno stato poco conosciuto rispetto ad altri dal punto di vista mediatico.
Nel clima già più scherzoso e confidenziale ho la brillante idea di commentare:
– Probabilmente perché lì sono più furbi e fanno meno guerre o altri casini!
Ripensando a tutto quello che avevo letto a proposito della convenienza delle multinazionali a mantenere l’Africa in condizione di guerra perenne per poter rifornire i gruppi paramilitari di armi in cambio di materie prime.
– Non è proprio così, te lo assicuro.
Si limita a rispondermi senza alcuna recriminazione. Ma dal suo cambio di espressione capisco di aver perso una buona occasione per tacere.
Arriviamo in un appartamento di bengalesi. Saliamo le scale e dentro troviamo un solo uomo, non tanto alto, capelli lisci e neri, con denti molto prominenti. Qui sembra più sporco e più vecchio rispetto all’altro. Il pavimento è appiccicaticcio e la tavola è apparecchiata con dei volantini pubblicitari di una catena di elettronica. Penso che chiunque se ne farebbe un problema. Io invece non posso dire niente perché più volte ho fatto la stessa cosa, utilizzando i quotidiani come tovaglia e mangiando direttamente dalla pentola. Evidentemente dipende più dal sesso che che dalla provenienza.
Mara si alza per prendere una telefonata e va nelle altre stanze dell’appartamento. Rimaniamo da soli io e l’uomo che mi chiede se voglio qualcosa da bere. Cordialmente declino ma insiste, esattamente quanto faccio io nel rifiutare. In parte le condizioni igieniche dell’appartamento non sono particolarmente invoglianti al consumo di cibo, in parte non è mia abitudine prendere cibo o bevande fuori pasto, e questo in qualunque casa. A meno che non stia morendo di sete o di fame. O non sia ospite.
Quando lavoravo in un magazzino, c’era una donna di origini calabresi che ogni giorno insisteva che io mangiassi dei biscotti di cui non avevo nessuna voglia. Per placarla e stare tranquillo dovevo prenderli e farli sparire tra le merci stoccate negli scaffali altrimenti non mi dava tregua.
L’uomo a un certo punto desiste dall’offrirmi qualcosa e io provo a conversare, ma la comunicazione langue. Dopo poco ritorna Mara:
– Allora, come va? Avete parlato un po’?
– No, lui no vuole parlare!
Dice subito stizzito ma sorridente. Mi prende alla sprovvista per un attimo, ma ribatto imbarazzato:
– Veramente ho provato a parlare ma…
– Lui no vuole niente!
Rincara, e a quel punto Mara mi spiega che per loro è usanza offrire sempre qualcosa agli ospiti, di solito tè o succo di frutta, e poi si chiacchiera insieme. Ripenso alla collega del magazzino e a quanto certi modi di stare con gli altri siano universali.
– Faccio il tè?
– Va bene! Prendo il tè!
Mi arrendo esasperato.
Lo vedo poi alzarsi e scomodare pentolini vari mentre la luce di un insolito sole invernale filtra dai vetri sporchi della finestra. Guardo la tovaglia e spero che almeno stoviglie e tazze siano pulite. Mi rincuora vedere un fusto di sapone, un po’ meno tutti i piatti da lavare.
Mi serve il tè con il latte in un bicchiere di vetro. È bollente. Ed è buonissimo.
Dopo aver bevuto tutto, Mara mi porta, sempre nello stesso stabile, prima in un altro appartamento di bengalesi in cui però non troviamo nessuno e poi in un appartamento di afghani. Prima di entrare mi avverte:
– Anche loro sono come i bengalesi, ogni volta che hanno un ospite offrono qualcosa e si offendono se non accetti, quindi se non hai voglia di nulla preparati a discutere.
Entriamo e ci accomodiamo secondo il consueto copione. Trascorsi alcuni minuti uno di loro mi si avvicina e mi domanda se voglio qualcosa da bere.
– Un succo di frutta, grazie.
Il quarto giorno diluvia.
Si comincia con la riunione generale insieme a tutti gli operatori, durante la quale vengo presentato ufficialmente e conosco i colleghi. Faccio molta fatica a seguire i discorsi e gli interventi, perché la maggior parte delle volte sento dire cose di cui non ho alcuna conoscenza. Mi limito a osservare e ad ascoltare. Vengono spiegate alcune modifiche e date alcune comunicazioni.
Nel pomeriggio ho appuntamento con Luis all’ingresso del vecchio collegio, utilizzato dall’associazione come centro di prima accoglienza da cui poi i beneficiari vengono smistati negli altri appartamenti sparpagliati per la città e i paesi vicini. Mi presento all’indirizzo ricevuto con una decina di minuti di anticipo. Non conosco il numero civico quindi inizio a cercare un fantomatico ingresso che non riesco a trovare. Mi chiedo se non si trovi nella via parallela. Torno indietro dove ho parcheggiato, per provare a vedere se riesco a identificare l’ingresso che, a detta di Luis, è molto facile da trovare. Percorro la parallela e trovo un portone in legno e vetro. Busso ma nessuno risponde. Suono e non ottengo nulla. Risuono senza risultati. Dopo l’ultimo tentativo mi trovo di fronte una suora che si limita a fissarmi con aria interrogativa per un attimo prima di dire, laconica:
– Sì?
Esito cercando di decifrare la situazione mentre lei rimane in attesa.
– È qui che si trova A Braccia Aperte?
– No. Deve andare nella strada parallela.
Si sporge dall’ingresso per indicarmi con il braccio il giro che devo fare e chiude la porta senza troppi convenevoli, lasciandomi appena il tempo di ringraziare. Ripercorro di nuovo a ritroso la stessa strada e nel frattempo mi suona il cellulare. Armeggio maldestramente nelle tasche per riusci19
re a prendere il telefono ma perdo l’ombrello che mi sfugge di mano e, cadendo, mi espone a una delle peggiori piogge battenti che io ricordi. Impreco e lo recupero prima di rispondere.
– Emilio dove sei?
È Luis. Mi sembra di percepire un vago tono di rimprovero.
– Sono vicino, ma non ho capito quale sia l’ingresso. Ho trovato tutto chiuso e non ho visto campanelli.
– Quello verde. È aperto. Devi solo spingere.
– Ah, ok.
Guardo l’ora, mancano ancora due minuti all’orario stabilito per l’appuntamento. minchia che precisino, penso tra me e me, risentito per la mancanza di fiducia.
Raggiungo l’ingresso, spingo il portone ed entro in un piccolo cortile in cui non trovo nessuno. Mi avvicino a un’enorme porta a vetri da cui posso vedere l’interno dei locali e scorgo Luis. Busso e un ragazzo magro viene ad aprirmi. Ha la barba e un fazzoletto intorno al collo.
– Ciao! Tu devi essere il nuovo collega, piacere. Io sono Sebastiano.
– Ciao! Piacere, Emilio.
– Immagino ti abbiano mandato qui per vedere come funziona. Facciamo il tour insieme a Luis.
La struttura è ben tenuta e pulita. La sala mensa è linda e con i pavimenti appena lavati, le sedie tutte ben posizionate sopra i tavoli. Sulle pareti diversi cartelloni illustrano alcune frasi di uso comune in italiano, con le rispettive traduzioni in inglese e francese. Sebastiano gestisce tutto da solo e, di sua iniziativa, ha organizzato lezioni di italiano nella struttura: parla altre tre lingue.
Le persone assegnate all’associazione dalla prefettura, alloggiano qui fino a che non si liberano posti negli appartamenti. Luis e Sebastiano mi mostrano le camere, non partico20
larmente spaziose ma nemmeno anguste, da tre, quattro posti letto. Qua e là incontriamo alcuni ragazzi in tuta e ciabatte che salutano ogni volta che vedono un operatore. Qualcuno passa lo straccio per pulire i pavimenti.
Sebastiano mi illustra la quotidianità scandita dai pasti e dalle lezioni, specificando che è necessaria una presenza continua in particolare a pranzo perché i litigi per il cibo sono facili ad accendersi, specialmente quando gli ospiti sono arrivati da poco. Luis invece mi presenta alcune lacune strutturali, qualche macchia di muffa alle pareti e qualche termosifone non funzionante.
Arriviamo nel sottotetto e qui ci sono una decina di brande, alcune occupate altre no.
– Qui ci sono i bengalesi
Mi dice Sebastiano.
– Giusto ieri c’è stata una rissa per occupare quella stanza là in fondo.
Mentre me la indica, dalla porta esce un ragazzo, non solo più alto e grosso dei suoi connazionali ma anche di me, Sebastiano e Luis. Mandibola pronunciata e squadrata, occhi tondi nerissimi, viene verso di noi senza dire una parola e incrocia le braccia.
Luis si avvicina e gli parla in italiano, poi passa all’inglese dicendo al ragazzo:
– Tu vuoi essere il boss qui, vero? Eh? Il capo!
Mima con le braccia un gesto di adorazione.
Il tizio sorride in modo strano: sembra in imbarazzo ma allo stesso tempo vuole darsi un tono davanti agli altri ospiti. Si allontana e si siede su un letto lì vicino continuando a mantenere il contatto visivo. Luis gli dà una pacca sulla schiena e poi si rivolge a me:
– Cerco sempre di scherzare per evitare tensioni. Bisogna fare così.
Non sono convintissimo ma annuisco.Mi mostrano altri locali, alcuni dei quali ancora inutilizzati. Sebastiano mi fa vedere il magazzino dove vengono conservati medicinali e cibo. Mi dice che negli ultimi giorni hanno preferito chiuderlo a chiave, per evitare furti.
Un ragazzo ci passa vicino e Sebastiano me lo presenta.
– Lui è Didier. Viene dalla Costa d’Avorio, è arrivato qui da un paio di mesi. Dice di avere vent’anni ma secondo noi è più vecchio.
Non posso fare a meno di convenire con lui, lo guardo e gli sorrido senza dire nulla mentre tra di loro si scambiano qualche frase in francese. La visita finisce e insieme a Luis ritorniamo in strada, ognuno sotto il suo ombrello Mi giro verso di lui e sorrido: è tutto imbacuccato per il freddo, tra sciarpa, guanti, cappello e bavero rialzato.
– Come ti sembra? Hai qualche dubbio, qualcosa che vuoi chiedere?
Mi domanda Luis.
– Sì. Mi hanno detto che dovrò compilare la lista spesa negli appartamenti e poi lasciarla in una cassetta delle lettere dal magazzino, ma qui non la vedo. Dove rimane?
– Dall’altra parte della città.
– Ma questo non è il magazzino?
– Ma no! Quello che hai visto è solo per loro, per tutti gli altri appartamenti ce n’è uno apposta! Non basterebbe per nessuno altrimenti.
Non avevo capito niente.
Quinto giorno.
Questa volta mi affianco a Max, il quale mi anticipa che visiteremo uno dei peggiori appartamenti. Prendiamo la sua macchina e ci allontaniamo dal centro storico. Arrivati a destinazione, Max parcheggia di fronte a una vecchia palazzina anni ‘60. Suona il campanello e nessuno risponde. Deve insistere un po’ prima di ricevere risposta.
– Questi non aprono mai alla prima.
Mi dice mentre spinge la porta d’ingresso.
Saliamo una rampa di scale e troviamo la porta dell’appartamento leggermente aperta. La nebbia del fumo di sigaretta e di hashish non si è ancora diradata che siamo già dentro. Disordine ovunque e sporco, i piatti da lavare sul lavandino incrostato, muffa sulle pareti. Max entra nelle camere da letto ma una la trova chiusa. Bussa più volte ma nessuno apre. Esce un ragazzo in canotta che sguscia fuori richiudendo la porta dietro di sé impedendoci di andare oltre.
– Cosa nascondi?
Chiede Max in tono amichevole ma deciso.
– Niente!
Risponde in un inglese masticato e poco comprensibile.
– Allora perché hai chiuso la porta?
– È in disordine!
– Ah, perché adesso è diventato un problema per te!
Il ragazzo ride sguaiatamente battendo le mani.
– Apri la porta, dai.
– Non posso.
– Perché?
– Perché c’è la mia donna dentro.
– Ah, la tua donna…
– Sì, stavo scopando!
Aggiunge e ride di nuovo sguaiatamente mimando con le mani e ondeggiando il bacino. Ma alla successiva richiesta apre la porta e rivela una stanza vuota. L’unica cosa presente, oltre al disordine, è un forte odore di hashish.
Max scuote la testa e dice solo:
– Questi proprio non ce la fanno. Sono già stati segnalati più volte e continuano a fare sempre gli stessi casini.
– Cosa bisogna fare in questi casi?
– Niente! Cosa vuoi fare? A loro gli rompi le scatole e poi lo segnali, ma tanto è difficile che venga fatto qualcosa. Sai da quanto lo diciamo che questi hanno dei giri strani?
Prosegue e mi porta in un’altra stanza. Non è sconfortato, sembra più che altro che gli eventi abbiano iniziato a scivolargli addosso Qui troviamo un divano semiaperto con un materasso arrangiato sopra e, su questa instabile sovrapposizione, un ragazzo magrissimo.
– Ma che cavolo fai?!
– No no, così va bene.
Dice lui serio e convinto. Max scuote la testa senza dire nulla. Poi si rivolge a me per spiegarmi che ha problemi polmonari ed è anche in attesa di un trapianto, ma si trova nello stesso appartamento di altri che passano le giornate a fumare e, probabilmente, anche a spacciare.
– Spero di non capitare qui.
– No, qui non credo. A fine mese li spostiamo da un’altra parte. Non ti hanno ancora detto nulla?
– No, niente.
Usciamo e saliamo di un piano. In questo appartamento ci sono molte più persone. Sono almeno otto, quattro per stanza. Sembra un poco più pulito ma non fa comunque una buona impressione, vecchio e fatiscente a prescindere dal disordine. Max entra nel bagno e poi chiama uno dei ragazzi riprendendolo perché non ha pulito una macchia di muffa con la candeggina. Subito dopo si arma con uno spruzzino e dei teli e salendo sopra una sedia, inizia a lavorare di gomito.
Torna da me ed entriamo in una camera da letto. A terra un router annerito appoggiato sopra la scatola di cartone. Tre persone giocano con i cellulari mentre uno dei ragazzi se ne sta sotto una coperta non particolarmente nuova; dà un colpo di tosse e si porta la mano davanti alla bocca.
– Hai sentito? Questa è tubercolosi.
– Scusa?
– Lui ha la tubercolosi.
– Ma è infettivo?
– No, sta prendendo i farmaci. Abbiamo un infermiere che li segue e se ci fossero dei problemi lo farebbero ricoverare.
– Ma tu sei tranquillo?
– Non è nemmeno il primo…
Max sembra davvero rassegnato, ma io inizio a chiedermi sesia pronto ad affrontare il contatto con malattie pericolose. Non mi sento preparato a questo. Cerco di deviare i pensieri chiedendo qualcosa sugli ospiti. Max mi spiega che sono somali e sono gli unici nell’associazione; in generale arrivano più che altro persone dal Mali, dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria e dal Senegal e in minor numero da altre nazioni africane, i Siriani per la maggior parte vanno in Germania.
Risaliamo in macchina e cambiamo zona, entriamo prima in un appartamento di afgani dall’aria molto pacifica e poi in un altro appartamento di nigeriani in cui l’accoglienza è piuttosto indifferente: ci guardano senza dire nulla, stiamo una mezz’ora, il tempo per spiegarmi altri dettagli in generale e ce ne andiamo nella stessa indifferenza con cui siamo arrivati.
Elena mi telefona e mi comunica che mi è stata assegnata una palazzina con sei appartamenti a Cerreto della Pietra. Non dovrebbe essere difficile da gestire per me, aggiunge, essendo tutti nello stesso stabile. Mi consiglia di sentire Luis per andare sul posto quel giorno stesso.
All’ex-collegio trovo ad aspettarmi Didier, uno dei ragazzi conosciuti il giorno precedente in attesa di alloggio. Ha con sé alcune valigie e diversi sacchi neri pieni delle sue cose. Sale in macchina con Luis e io li seguo con la mia verso Cerreto della Pietra.
Quando arriviamo è talmente buio che non riesco a vedere nemmeno la facciata della palazzina. Scendiamo tutti dai nostri rispettivi mezzi e ci carichiamo di qualcosa. La porta dell’androne è rotta, non c’è la serratura e rimane sempre aperta. Nell’ingresso ci sono alcune bici buttate di lato. Per terra vedo sporco e pezzi vari di mobili, oltre a un frigo abbandonato. Saliamo le scale impolverate per due piani e poi entriamo in uno degli appartamenti. I ragazzi dentro sembrano tranquilli ma il posto è fatiscente. Muri scrostati e ingialliti, mancanti di intonaco in diversi punti. I mobili sono vecchi e il cibo è poggiato dove c’è spazio nei ripiani, qualcosa invece è a terra. Facciamo sistemare Didier dove c’è un posto libero. La camera è scarna, ci sono solo due letti, una poltrona e un cassettone. Le altre sono uguali, due letti e un armadio, niente di più.
Luis mi dice che è il giorno in cui devono compilare la lista spesa che va consegnata al magazziniere e poi ci penserà lui a portare il cibo. Mi presenta a ognuno di loro come il nuovo referente, poi si siede sul tavolo e inizia a chiedere da un elenco precompilato di cosa hanno bisogno. Sono loro a indicare le quantità e lui le segna, a volte modificandole un po’. Mi suggerisce di non fidarmi e di controllare sempre che non abbiano rimanenze, perché spesso si fanno portare più di quanto abbiano bisogno. Si premura di dirmi che sono abituati alla nostra presenza e quindi sanno che possiamo controllare la cucina e anche i loro armadi perché capita che nascondano del cibo dentro i cassetti e va assolutamente evitato.
Facciamo lo stesso giro per compilare la spesa in altri due appartamenti prima che scopra di doverlo fare anche in quelli dei ragazzinigeriani all’ultimo piano. Luis è contrariato dall’imprevisto ma decide di andare anche se non ne sembra contento.
Nel primo appartamento si sente un certo nervosismo. Il copione è sempre lo stesso con la differenza che qui Luis chiede le necessità per la lista spesa, ma più spesso le scrive direttamente da solo. Un ragazzo che parla molto bene in italiano, Ezekiel, gli rinfaccia che vengono dette falsità su di loro. Sembra offeso e arriva a gridare nel sostenere che non hanno fatto nessuna festa e sono i vicini a inventarsi delle storie.
– Se non vi fidate venite qua la sera a controllare! – Dice infervorato – Non potete dire quello che non vedete!Luis cerca di tenere calmi gli animi e di compilare la lista nel minor tempo possibile. La discussione non sembra cessare e Luis taglia corto ignorandoli completamente e recandosi nell’altro appartamento. L’accoglienza è decisamente confusionaria, al nostro ingresso si lamentano tutti contemporaneamente parlando uno sopra l’altro in maniera molto concitata, ma non riesco a capire a proposito di che cosa. Luis cerca di tenerli calmi ma nella bolgia che si è creata uno di loro grida più forte aizzando gli altri senza che si capisca bene il motivo. Sono più di quanti dovrebbero essere, c’è dentro anche qualcuno dell’altro appartamento, ma non ho la minima idea di chi possano essere. Luis sta compilando la lista ma è circondato da alcuni di loro che gesticolano e parlano tutti insieme chiedendo qualcosa a gran voce.
– Basta. Andiamo.
Mi dice e arrivato sul pianerottolo inizia subito a scendere le scale di corsa. Lo seguo perplesso mentre escono tutti rapidamente fino all’ingresso in un confuso vociare in cui spicca il grido:
– Abbiamo dei diritti!
Ma mentre scendiamo li vedo rientrare e sento Luis dire:
– Questi si lamentano sempre di tutto. All’inizio li ascoltavo poi ho iniziato a ignorarli. Entravo, facevo il mio lavoro e stavo calmo mentre loro continuavano a fare casino.
Passiamo ancora nell’ultimo interno e qui il clima è decisamente più disteso. Amara, maliano, parla con Luis chiedendogli se vuole andare a mangiare da loro e lui accetta dicendo che saremmo andati noi due insieme la settimana successiva. Amara e gli altri sono molto tranquilli e gentili.
Ci ritroviamo all’esterno nuovamente davanti alla palazzina.
– Ti suggerisco solo di farti vedere in ufficio ogni tanto e di non prendere distanze, altrimenti finisci isolato qui. Non farti carico di troppe cose che alcuni scaricano facilmente sugli altri. Senti, puoi mica consegnare tu le liste della spesa?
– Veramente io vado nella direzione opposta per tornare a casa.
– Ah, ok allora le porto io. Ciao!
Sale in macchina e se ne va mentre io rimango ancora sull’ingresso a domandarmi dove sia capitato.
I fari mi illuminano per un istante e poi si perdono tra i campi, svanendo dietro una curva.