Distopica – Prologo
Ecco il prologo del romanzo Distopica di Michele Colangelo!
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Prologo
1956
Da poco il giovane prete aveva ottenuto l’incarico in un piccolo paese del centro. L’agglomerato fatiscente di catapecchie e strade dissestate nonostante fosse stato abbandonato da anni dalle truppe tedesche, mostrava ancora gioia per la liberazione. Prima d’entrare nell’unica locanda presente notò visi di felicità e anime tranquille che si godevano la pace e una buona prospettiva per le loro vite future. Qualcuno parlava di rimodernare il paese iniettando speranza ed entusiasmo ad altri astanti vestiti di gilè, pantaloni raggrinziti e magline sporche di sudore e terra. L’economia italiana sarebbe fiorita e piano, estendendosi in tutto lo stivale avrebbe portato a una rinascita senza precedenti.
Bibbia nella destra e ampolla con l’olio santo nella sinistra, il prete si fece largo spostando delle tendine poste all’ingresso dell’attività ed entrò. A pochi passi da un largo e lungo specchio sistemò i suoi capelli. Il taglio corto non necessitava poi di grandi ritocchi e coronava bene il viso quadrato e la montatura nera degli occhiali, che schiacciò meglio col dito medio sul naso.
«Padre venite, è da questa parte», la sua attenzione fu richiamata da una donna anziana e minuta appena sbucata dalla porticina accanto al bancone.
Attraversò la decina di tavoli con quattro posti a sedere per raggiungerla. Insieme si portarono sul retro silenziosamente, entrambi a capo chino e mani incrociate sul ventre. Una seconda porta li introdusse in un mini appartamento. Solo una cucina, un bagno e un piccolo corridoio che si allungava fino alla stanza da letto.
Il forte odore di umidità che regnava nella locanda e nel corridoio cedette il passo a quello pesante di sudore, aliti di caffè e vino.
Una cerchia di persone al loro entrare, in fila indiana lasciò la stanza. Le pareti fatiscenti non esibivano niente, neanche un crocifisso. Al centro della stanza disteso nel letto a due piazze, c’era un vecchio uomo moribondo. Aveva le braccia distese lungo il corpo coperto da lenzuola e gli occhi chiusi.
Il prete si sgranchì la voce, pronto a cominciare con la sua prima estrema unzione. «Vi lascio soli, padre. Se avete bisogno di me, chiamatemi», disse la donna prima d’abbandonare la stanza.
Il vecchio aprì gli occhi di scatto ma restò il viso emaciato privo di espressioni. «Prete…», pronunciò con tono che sembrava uscire forzatamente dalle labbra screpolate. «Ho iniziato da ragazzino a lavorare. Dalle prime luci dell’alba all’imbrunire schiattavo nei campi per la raccolta dei frutti che la stagione corrente faceva nascere. Mio padre mi diceva sempre di lavorare duramente e di usare la lingua per sputare parole giuste e leccare il culo dei clienti. Così sono cresciuto seguendo i suoi consigli e quando è morto, ho continuato. Mi sono ingrandito e il premio è stato abbandonare il ruolo di contadino per aprire una locanda. L’unica del paese. I soldi entravano…», s’interruppe per dar sfogo a tenui colpi di tosse. Ci fu silenzio. Il prete lo vide richiudere gli occhi. Si sedette su una sedia e allungò un braccio per tastargli il polso sinistro. Il battito c’era.
«Poi sono arrivati quei bastardi dei crucchi. Sono entrati in paese e hanno incominciato a creare subbuglio», attaccò il vecchio riaprendo gli occhi. «Hanno sfasciato mezzi, case, fatto chiudere attività commerciali. A sparare su povere persone innocenti… fottuti ubriaconi. Ma il fatto che amassero bere è stata la mia salvezza. Me li ritrovai clienti, male pagatori ma, non distrussero la mia locanda. Gino, Saverio e Lucio, tre dei miei migliori amici, persero le loro attività e… s’inventarono partigiani. Avevano trovato nascondiglio su per le montagne e ogni tanto scendevano a far danni: rompevano qualche vetro e bucavano qualche ruota ai mezzi degli invasori. Il problema sorse quando i tre riuscirono a procurarsi delle lupare. Accopparono uno dei nemici. L’aria allora si fece tesa. Morirono delle persone perché avevano tenuto la bocca chiusa sull’accaduto. Una sera come tante, prete, misero piede nella locanda, ma non volevano del vino. Esplosero qualche colpo frantumando delle giare. Il capo della compagnia mi prese per il bavero e mi allungò sul bancone puntandomi sotto il naso la canna di uno Schmeisser. Aveva un alito pestilenziale e un’espressione di ghiaccio come i suoi occhi. Sai cosa ho fatto, prete?», delineò un sorriso sinistro mentre la testa annuiva lentamente, «ho cantato come un uccellino prima ancora che mi facesse la domanda…».
Il prete batté le palpebre un paio di volte, «Nel nome del Padre, del Figlio e dello…».
Il vecchio sollevò un braccio come a intimargli di non andare oltre. «Dissi loro dove potevano nascondersi. Pochi giorni e vidi Gino, Saverio e Lucio giustiziati in piazza con mogli e figli», altra scarica di tosse.
Il prete contemplò la scelta del moribondo, aveva abbandonato il suo podere. Nel suo paese c’era Ambrogio Belli, datore di lavoro di suo padre che con l’agricoltura era diventato ricco proprietario di una villetta circondata da campi di grano, frutteti, stalle di mucche, pecore e cavalli. Era curioso di vedere dove lavorasse il papà, così dopo tanto chiedergli di voler andare con lui, Belli acconsentì alla richiesta nel giorno in cui il ragazzino compì undici anni. Ebbe un bel regalo da parte del papà e del signorotto. Mentre il genitore lavorava fu invitato dal padrone a fare il giro completo dei campi e delle stalle. In quello delle mucche aveva bevuto del latte appena munto e quando uscirono, Ambrogio ordinò a una governante di preparare il pranzo anche per il giovane ospite.
La carne di vitello che gli fu servita emanava un profumo genuino, era tenera, succulenta e si sposava bene con il sapore dolce dei pomodori di Pachino e quello dell’aceto delicato sui fagiolini. Il latte che bevve era tiepido e dolce abbastanza anche senza aggiunta di zucchero, come quello bevuto alle prime luci dell’alba. Infine, arrivò un secondo regalo: una torta. «Anche questa è fatta in casa. Il pan di Spagna è fatto con la farina del mio grano, la panna, con il latte delle mie mucche, le ciliegie sono state raccolte dal mio frutteto. Mangio solo alimenti prodotti dalla mia proprietà. Ci tengo a mangiare roba genuina», lo mise al corrente Ambrogio, prima che gli fosse servita una bella fetta. «Mangiare i miei prodotti sani, figliolo, allunga la vita… e venderli, la rende sublime», concluse.
Un’esperienza alquanto nobile, rilassante, profumata e spumeggiante di potere, fece volare il giorno più bello della sua adolescenza.
S’innamorò di tutto quello che poté osservare nella proprietà e dello stile di Ambrogio Belli che, aveva detto d’aver iniziato da poco anche a commerciare i prodotti che ne ricavava.
A tarda sera quando il papà fini di lavorare, abbandonarono il luogo e in testa, il ragazzino aveva il sogno di potersi permettere prima o poi tanto ben di Dio.
Era figlio di un contadino e di una casalinga, pertanto fu già un sacrificio per i suoi potergli permettere gli studi che decise di completare in seminario grazie alla profonda fede che i genitori avevano e che gli era stata trasmessa. Dio, dicevano, era immenso padrone dei cieli. I sogni, la forza, la rettitudine e la bontà che regnavano nel cuore di chi lo amava erano guidati da Egli. Dio faceva smettere le guerre che il diavolo causava. E se erano scampati a quella appena finita era grazie alla Sua volontà.
Ebbe da pensare e capì che, Dio era molto più potente di un ricco proprietario terriero. Soprattutto era stato Lui a incidere nella sua anima il sogno, un giorno, di diventare come Ambrogio Belli.
Ora aveva un impero alimentare e tanta gente che lavorava per lui. I suoi prodotti si potevano trovare dappertutto, il papà parlava anche di esportazioni estere che erano iniziate verso l’oltreoceano.
Il prete continuò con il segno della croce al cospetto di chi invece aveva avuto idee differenti.
«Fratello, io ti assolvo da tutti…»
«E chiudi il becco…», lo interruppe il vecchio. «Sai perché ho fatto la spia? Per difendere i miei affari», tirò una boccata d’ossigeno.
«Come ti chiami?»
«Giovanni», rispose pazientemente il prete.
«Giovanni, rappresentante di Dio, se un giorno avrai la fortuna di diventare un pezzo grosso, capirai perché ti ho raccontato questo…», chiuse per la terza volta gli occhi.
Il prete mise la mano a pugno sotto la bocca e si sgranchì la voce per la seconda volta. Non capì la sua presenza in quella stanza, ai piedi del letto di un uomo che anche in punta di morte conservava una reputazione poco rispettosa nei confronti di chi portava la parola di Dio.
«Fratello, incrocia le braccia al petto», tuttavia proseguì togliendo il tappo dell’ampolla. Ma lui non ascoltò. Ritastò il polso per accertarsi che non avesse smesso di vivere. Il battito c’era. Allora s’apprestò a ungergli il capo d’olio.
«Fratello, incrocia le braccia al petto», tuttavia proseguì togliendo il tappo dell’ampolla. Ma lui non ascoltò. Ritastò il polso per accertarsi che non avesse smesso di vivere. Il battito c’era. Allora s’apprestò a ungergli il capo d’olio.
Il vecchio ancora una volta sgranò gli occhi, «Prete…», glieli rivolse contro con note d’intransigenza, «sei qui perché mia moglie continua nonostante stessi morendo, a rompermi con la storia dell’ultima confessione. Vai da lei e dì che hai fatto il tuo lavoro», li richiuse, «ora vattene da questa stanza e lasciami crepare in pace».