Giovanni – Terra natale
Ecco il primo capitolo del romanzo Giovanni di Massimo Berri!
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Capitolo uno
Terra natale
La paura governa il genere umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non c’è nulla nel creato più abbondante della paura. Come forza modellatrice è seconda solo alla natura stessa.
Saul Bellow, Il re della pioggia.
Rosamunda – Claudio Merli
https://www.youtube.com/watch?v=38kYygIvfzk&list=RDEM-0XAP2J_WuySn-rlSPq1bQ&index=15
Giovanni. L’autobus lo portava nella sera umida, con il suo carico di sconosciuti. Si sentiva spossato e non riusciva a vedere bene fuori, nel freddo del vento marino. Spossato. Anche se poi poco dopo aveva di nuovo la forza intera nelle braccia e nelle gambe. Il tubo a cui si stringeva era di alluminio viscido.
Sconosciuto, si sentiva, tra quelle persone.
“Diventa parrucchiere!”
Sarebbe stato un pessimo parrucchiere. E poi perché? Forse invece sarebbe diventato un coiffeur pour dames di prima scelta.
Messa in piega. Messanpiega. Messanpieghe. A messa non andava da ben-ben. A messa con la messa in piega. Dov’è la messa? Dove l’han messa? La messa l’han messa via. L’hanno messa prima del telegiornale.
Era la fermata di Piazza Giusti.
“Oh, sua eccellenza… “
Forno, orefice, edicola, ferramenta, besagnino… il vecchio stava seduto su una vecchia sedia, con la canottiera e toccava il culo alle signore. Che si facevano la messa in piega un po’ anche per quello. Il figlio, allampanato, pesava le banane. Ma poi nessuno sapeva come andavano le cose. Le cose. Le banane, che son le cose per eccellenza.
Giovanni saliva la salita, tra i platani nella pioggetta, senza l’ombrello. Una volta c’era il forno, l’orefice… una volta, volta la carta. La messa in piega con la pioggetta si rovina. La strada brilla, e le automobili lasciano una scia di suono tra le acacie del terrapieno. Lassù, sopra il cavalcavia. Sempre più veloce, sempre più forte, sempre più grandi, sempre più belle…
E su tutto quella pioggia fine, come tempo sgranato, come nebbia di sputo di bestia.
Il bello di tutto questo era che dell’orefice lui non aveva mai saputo bene che farsene. Certo, gli orologi…
Suonò il citofono.
“Chi è?”
“Son io”
Bztlacc
Pla-fon. Ritaclac. Ritaclac. Flic… gnooo.
Uscì sul ballatoio del secondo piano del grande caseggiato.
“Ciao Giovanni”
“Ciao Sasha, come va?”
“Molto bene, molto bene. Stiamo mangiando”
“Ciao mamma, buon appetito!”
“Ciao Giovannino, hai già mangiato?”
Lo guardava sorridendo, con il cucchiaio in una mano e l’altra mano a mezz’aria, quasi a bilanciarsi.
“È un po’ presto per me…”
“Se vuole minestrina ce n’è tanta e anche prosciutto… “
Si sentiva illanguidire al pensiero del prosciutto.
“Vediamo. Forse tra un po’. Ho bisogno di sedermi… “
Si lasciò andare sulla poltrona nella grande cucina-sala de pranzo.
“Sei stanco! Mi dispiace che vieni fino a qua alla sera. Io sto bene, lo sai che non c’è bisogno!”
Sasha spense la televisione. L’intimità si fece palpabile. Il telefonino di Giovanni cicalò.
Pino. Da molto aveva voglia di sentirlo. Spense il telefonino.
“A me fa piacere venire, se posso.”
Silenzio. La vecchia riprese a mangiare la minestra, lenta, metodica, raccogliendo singole particelle di pastina nel cucchiaio, con l’aiuto dell’indice della mano sinistra. E non era solo perché il cibo non andasse sprecato, era come un gioco di bambina, un attento solitario.
Giovanni guardava Sasha. Poi distraeva lo sguardo.
“Oggi è una giornata orribile”, disse, “tutto è un casino, a piedi, con l’autobus e avevo freddo e ora son tutto sudato… “
“Noi siamo al calduccio qua e ce la divertiamo… eh, Agata?”
“Cosa?”
Sasha prese la rincorsa “Dico che ce la divertiamo!”
La vecchia fece una faccia che voleva dire che per lei andava bene qualunque cosa anche se non ci aveva capito niente.
“No… cioé, ho ancora soldi ma non so quando lei viene ancora… “
Giovanni guardava il buio oltre il vetro della finestra, che quarant’anni prima era stata avveniristica e lussuosa e ora appariva un po’ misera seppur identica a sè stessa. Nel centro della finestra la luce al neon, riflessa, disegnava una specie di disco volante, come in un videogioco e la sensazione, poi, fu che là fuori non ci fosse più nulla. C’erano solo lui, sua madre, Sasha e la minestra. E il prosciutto.
Sasha lo guardò tranquilla. “Allora se vuole prosciutto le metto in tavola…” Sasha era vestita in modo molto semplice. E mangiare il prosciutto forse non era una buona idea, forse lo aveva comprato per sé…
“Non ho molta fame ora… grazie.” Poi ci ripensò. “Se mangia anche lei possiamo far cena tutti insieme, però!”
Alla vecchia piaceva il suono della voce di Giovanni. I suoi occhi brillarono.Sasha pensò, solo un momento “Sì, stia lì che metto in tavola qualche cosa… stia lì, prego.”
Giovanni guardava in giù i suoi pantaloni di velluto, vecchi e un po’ consumati. “Ti trovo bene, mamma, Sasha ti cura proprio bene, eh?”
“Sì, è proprio gentile questa signora. Da dove vieni che mi dimentico sempre?”
“Io sono ucraina. Da Ucraina.”
“Sì, dall’Ucraina! Ci sei mai stato tu in Ucraina, Giovanni?”
“No. Non sono mai stato in Ucraina, mamma.”
Ora erano tutti a tavola: minestra, prosciutto, insalata, patate e spinaci.
“Posso fare pasta col pesto?”
“No, no, c’è già troppo…”
“Vuoi televisione, Agata?”
“No. Non danno mai niente in televisione… sai Giovanni che la signora ha un sacco di galline al suo paese?”
“Hai un’azienda agricola? Una fattoria…”
“No. Io lavoravo in una fabbrica di polli. Che ora non c’è più. Mio marito ha gallina e anche altre cose, conigli…”
Giovanni non aveva nemmeno mai visto uccidere una gallina. Le ricordava starnazzanti nei pollai. E poi spennate e decapitate, appese nelle botteghe. E poi smembrate, arrostite e bollite. Gli mancavano i passaggi. Ora che ci pensava gli mancavano molti passaggi, quasi tutti i passaggi fondamentali. Si potevano vedere in tv o dentro il computer… i passaggi: sangue, coltellate e tanti, tanti vampiri. Guardò sua madre che sbucciava, meticolosa, una mela.
“Una volta ho visto nascere un vitellino… ” disse Giovanni. “È stato per caso. Ero in vacanza, era sera, in montagna. La stalla era illuminata e siamo andati a vedere. Il fattore, che ci ospitava nella sua casa-albergo stava tirando le gambe del vitello che non usciva… e poi ci ha urlato cosa facevamo, perché non lo aiutavamo. I miei amici sono andati e… l’han tirato fuori.”
Pensò che la vita era una sequenza di fatti noiosi e senza importanza, fino a quando succedeva qualcosa di drammatico. Che era però spesso, inevitabilmente doloroso.
Grazie alla tv e ai computer era possibile però nutrirsi lautamente delle sfighe degli altri.
La cosa più incomprensibile era che questo fosse considerato non solo eticamente accettabile, ma addirittura doveroso. Ricordò i rosari, nelle case del paese della nonna, da bambino, le persone riunite in una stanza a mormorare. E poi i funerali, sobri, intensi. Si confuse… la condivisione del dolore è l’essenza della società, in un certo senso…
Il problema è sempre quello della modalità. Ma sarà vero che un uomo e uno schermo, in fondo, sono la stessa cosa?
“A cosa pensi, stellìn?”
“Ah… ma niente. Mi è venuta in mente una cosa…”
“Mio figlio, pensa sempre! È sempre stato tanto intelligente!”
“Parla sempre bene di lago. Ma poi stai sempre a riva!”
“Cosa dici?”. Agata era un po’ confusa.
“Ma niente. È un proverbio di mio paese. Per ridere.”
“E spiegaci un po’, questo proverbio!”
“Non c’è da spiegare, così… è per ridere… ” Guardava Giovanni.
Giovanni si strinse un po’ nelle spalle “Non so… vorrà dire che è saggio parlare sempre bene di tutti, piuttosto che no, ma che poi bisogna diffidare delle proprie stesse parole… forse.”
Sasha ridacchiava “Non so… così è difficile…”
Cominciò a sparecchiare.
“Dicci un altro proverbio ucraino, Sasha!”
Sasha pensava. Poi declamò. “Chiesa è vicina, ma strada è ghiacciata. Taverna molto distante. Camminerò piano piano!” Rideva di gusto. Tutti ridevano ora.
Sasha ora pensava. “Il telegiornale dice che un uomo a Napoli ha ucciso donna perché beveva, era ubriaco…”
“Ah… sì. Ho sentito. Una bestia. Però i telegiornali…”
“Sì. Io nemmeno credo a telegiornali… però quelle cose che succede, succede…”
“A ben, sì. Quelle cose… voglio dire, quel che è successo, è successo. Per citare un motto di casa nostra: chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…”
“… chi ha dato, ha dato, ha dato!”, fece eco Agata sorridendo.
Alberto Radius – Lasciatemi nel ghetto
https://www.youtube.com/watch?v=H6iBYr1jMTA
Giovanni si era seduto di nuovo nella poltrona. L’intimità di quella stanza era tiepida e lo faceva sentire pacificato.
“Riaccendiamo la TV?”, chiese a Sasha che si era seduta composta a tavola sgranocchiando un paio di biscotti.
“Sì, va bene, per me quello che vuole.”
“Sì, va bene, per me quello che vuole.”
Lo schermo si illuminò. Un tizio arringava dei malcapitati in quello che sembrava un quiz a premi. La cosa era concepita per dar modo al bellimbusto di pavoneggiarsi, molestando i figuranti con un tono che lo faceva apparire sommamente bonario, spiritoso ma senza eccedere. E pacatamente arguto.
C’era di che rassicurare milioni di teste di patata. I due concorrenti (se vogliamo usare questo termine) erano umiliati come topi su una ruota dal dover mettere impegno in un compito inconcepibile e insensato. Però ne avrebbero presumibilmente tratto un guadagno in denaro. E questo, pensavano nella pancia le teste di patata, alla fine, nella vita è quello che conta.
Questa tragedia, questo macello dell’umana dignità e tripudio del male, avveniva in una sinistra atmosfera di complicità, sotto lo sguardo di una muta di bertucce ammaestrate. Il grosso del denaro che circolava in quella bisca di scemi in realtà finiva al banco, come si conviene, e cioè al paterno presentatore, dritto nel suo conto in banca, guadagnandogli così agli occhi delle teste di patata un prestigio divino.
Se una persona guadagna tanto, pensavano con le budelle (inconsapevoli di pensare), non può essere un incapace.
“Non mi piace questo programma”, disse Sasha.
“Uuuh, che scemo quello lì, lui e i suoi pacchetti!”, rincarò la vecchia.
Giovanni cambiò canale. Pubblicità. Cibo. Senza lattosio. Cambiò canale. Era un telefilm con dei poliziotti-scienziato. Era un po’ claustrofobico. Tutto molto affollato di provette e schermi, camici e mascherine. La vice-capa era molto avvenente.
“Ogni tanto guardo questo film… mio marito mi ha detto che c’è cosa uguale anche da noi. Ormai possono riconoscere un… ladro con poche gocce di suo… sputo?”
“Certo. Si può fare… cioè, si può verificare che lo sputo che hai nella provetta è lo sputo di uno che ha sputato dove hai preso lo sputo… in prima battuta. Si chiama DNA. Metti che un tizio sostenga di non essere mai stato in camera da letto con sua moglie in vita sua: con la scienza lo inchiodi. O almeno corrobori i tuoi sospetti… i femminicidi hanno le ore contate. Certo, dovrebbe anche spiegare perché sputava in camera da letto, che non è educazione…”
“Ah… non capisco. Importante è di poter prendere ladri!”
“Sarebbe anche importante sapere poi cosa farne.”
“Si mette in galera!”
“Già… appunto. Le galere.”
Che poi erano delle barche, pare. E cosa c’é di più libero che andar per mare?
“Gente di mareeee, che se ne va, dove gli pareeee… ma dove non sa!”
A Giovanni sembrava un po’ una contraddizione. O no? Se vanno dove gli pare, questi marinai coatti, lo sapran bene dove stanno andando. Se invece se li portan le correnti (e non belzebù con tutta la tribù, come gli sarebbe parso più congruo) evidentemente non stanno seguendo una loro pur blanda volontà. A meno che si tratti di marinai-filosofi che hanno stabilito che quel che loro desiderano corrisponde esattamente a quel che loro accadrà. Umberto Tozzi si sarà rifatto agli stoici o direttamente a Kierkegaard? Mah… questi cantanti sembrano tutti scemi ma spesso lo fanno solo per non pagare il dazio…
“Canti bene”, disse Sasha “suoni chitarra, vero?”
“Sì, suono la chitarra. Da quando ero ragazzino…”
“Noi prigionieriii”, cantava ora nella sua testa Giovanni, “di queste città, viviamo sempre di oggi e di ieri, inchiodati dalla realtààà: e la gente di mare… va.”
A quel punto, automaticamente, Giovanni pensava sempre che visto che andava, la gente di mare, avrebbe potuto anche andarsene tutta a fare in culo. Tanto per i giramondo un posto vale l’altro.
Il problema era più in quell’autocommiserazione della controparte terricola.
Aaah! Noi tapini, prigionieri di queste metropoli, tra le apericene, i film da un tanto al mucchio, i ristoranti di pesce, le automobili con l’ABS e le discoteche e i social network… aaah! Loro sì che stan bene, là alla deriva nel Mar dei Sargassi, a bere il loro stesso piscio…
E poi c’era quel “inchiodati dalla realtà”, che era veramente forte. Intanto l’evangelico inchiodamento, quest’idea del sacrificio.
Che farebbe quindi pensare che la libertà dei marinai, in senso kierkegaardiano, come destino, fosse da ultimo intessuta della stessa sostanza della prigione dell’agnello suburbano, che accetta il sacrificio sull’altare dell’Aperol Spritz.
In ogni caso non si scappa, la dicotomia c’è, bella forte: LIBERTA’-APPARTENENZA. La parola realtà non andava presa, forse, in modo troppo strutturato. L’oggi, lo ieri e il reale rappresentano qui semplicemente l’assunzione di un preciso ruolo sociale in contrapposizione a una fuga velleitaria… si sa che fine ha fatto Ulisse con il suo guscio di noce. E quindi prigionieri, perché prigionieri? Un uomo che svolge il suo ruolo tra gli altri uomini, si diceva un tempo, è libero: libero quanto un uomo possa esserlo… Forse questi scrittori di canzoni sono degli alienati cocainomani. Questa ipotesi di lavoro spiegherebbe molto in un solo colpo di teatro.
Giorgio Gaber – La libertà
https://www.youtube.com/watch?v=FaxIzkqEzHc
Gli venne in mente che qualcuno aveva detto che Jack London definiva sè stesso un socialista individualista. Non era buffo? In genere si pensa alle idee politiche come ad appartenenze, appunto, e non ai liberi pensieri dei singoli… e chissà poi perché. Anzi, uno degli esercizi di malignità preferiti dal popolo è quello di cercare di smentire le appartenenze di questo e di quello sulla base delle sue azioni quotidiane. Tipo: “Ah, quello là dice di essere cristiano ma poi lo sanno tutti che c’ha l’amante!”. Oppure:”Dice tanto di essere di sinistra ma intanto si è comprato una casa al mare!”. Il popolo non capisce nulla, sennò non si farebbe menare per il naso e smetterebbe così di essere popolo. E comunque c’è popolo e popolo…
Nella televisione, intanto, si capiva che si era giunti alla fase conclusiva dell’indagine e che i cattivi erano stati messi di fronte alle loro responsabilità: Perry Mason non avrebbe saputo far di meglio: né di peggio. Solo che Perry Mason non aveva tutti quei marchingegni chimico-fisici per costringere le coscienze ad avere coscienza di loro stesse. Gli toccava lavorare di arguzia, fascino, arte retorica e penetrazione psicologica. Il malcapitato crollava.
Qui, in questa versione contemporanea, rimaneva tutto l’apparato metafisico-moralistico ma il confronto tra il colpevole e gli inquisitori… sì… gli investigatori, era sbilanciato dal fatto che questi possedevano tecniche tali da far venir l’invidia al Malleus. Infallibili sul serio. Io, pensava Giovanni, fossi stato un colpevole mi sarei andato a costituire prima di commettere il fatto, cavandomela, se andava bene, con un processo alle intenzioni e un’ammenda amministrativa…
“A te piace questo film, Giovanni?”, chiese Sasha
“Mah… non è male. A me non piace molto la televisione…”
“Ah… televisione serve per passare mezz’ora… ma certe cose sono belle… poi io sento un po’ di italiano e imparo…”
J.J. Cale – After Midnight
https://www.youtube.com/watch?v=1nFExQljrY0
“Ben penso che me ne andrò a casa…”
“Te ne vai già, Giovanni?”
“Fidanzata aspetta?”
“Mah… a dire il vero non ce ne sono.”
“Ah… non credo! E allora… buonasera”
“Ciao Mamma.”
“Ciao Giovanni, vieni presto, eh?”