L’oscurità sarà come l’aurora – Capitolo uno
Ecco il primo capitolo del romanzo L’oscurità sarà come l’aurora di Margherita Lindner!
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Capitolo uno
Qualcosa mi aveva attirato là. Non so spiegare né elencare i motivi che mi spingevano allora ad essere in un certo luogo o alla presenza di una certa persona. Quella volta fu forse un vuoto misterioso, uno stato d’animo in sospeso, come il mio, che mi attirarono.
Ero di fronte allo stagno attorno al quale si distinguevano appena le facciate di alcune case in legno. Gli alberi spogli, che non lasciavano intimità quando il freddo regnava, erano ora rigogliosi e verdi, e davano l’impressione di proteggere la casa da ogni lato. La fioritura e la luce regalavano un sapore di vacanza.
Un sentiero di pietre tra l’erba conduceva all’ingresso principale. La scala di legno era spoglia, gli spigoli dei gradini scoprivano la loro decadenza ora, né gatto né cuscino. Anche il largo balcone era stato riportato al suo stato originario e la costruzione in legno, ripostiglio per attrezzi da giardino, era stata smantellata.
Attraverso le grandi pareti a vetro scorrevoli si intravedeva appena la grande sala svuotata; i riflessi del sole parevano volerla proteggere da sguardi troppo invadenti.
La porta era socchiusa. Quei vani ora vuoti, normalmente stipati, e la casa priva di vita mi facevano impressione. Sembrava un’allegoria della mia vita finita, della quale erano rimaste tuttavia alcune tracce. Avrei voluto sedermi in giardino ad ammirare gli alberi in fiore, che mi stuzzicavano con la fragranza dei loro boccioli, ma entrai.
Dentro erano rimasti lo scaffale principale, alquanto singolare per i suoi quattro lati, quasi al centro della stanza, e un tavolo rotondo con varie macchie di colore sulla superficie. Non apparteneva alla sala, ma era stato portato lì dall’atelier. In uno dei lati dello scaffale erano stati lasciati in mostra, sui ripiani, alcuni vasi e stoviglie di ceramica che nessuno aveva avuto il coraggio di buttare via. Erano soggetti ideali per una natura morta, quasi oggetti-simbolo del pittoresco passato di quell’abitazione. Gli altri lati erano ancora stipati di libri di vario genere. C’era odore di legno vecchio, di polvere e di carte.
Quando alzai lo sguardo da uno dei tomi, notai il pianoforte alla parete. E seduta sullo sgabello c’era Miriam, mia sorella minore. Non mi stupii né spaventai nel vederla lì, apparteneva a quel luogo come le assi di legno. Le sue gambe nude in parte divaricate, una camicia rosa chiaro, larga e delicata: era la camicia che indossava per i giorni di festa. Pareva che il tempo si fosse fermato mentre si stava cambiando, lasciando l’azione incompiuta. La camicia la vestiva così morbidamente, che pareva esserci uno strato di vento tra il tessuto e la pelle. Vento che entrava fresco dalla parete a vetro scorrevole, aperta sul verde, attraverso la quale il fruscio delle fronde e il cinguettio lieve dei merli tentavano di riempire il silenzio, che tuttavia regnava con un’energia propria.
La schiena, in parte scoperta, era incurvata, il peso sulle braccia tese, i palmi tra le gambe, inchiodati allo sgabello rotondo restaurato più volte con l’aggiunta di tavole di legno tagliate su misura.
Fu come sentire la presenza di energia, ma non il suo flusso, bloccato in qualche dove, tra le travi di legno e le poesie di Mallarmé, di Heine, di Rilke e di Goethe, stampate in caratteri gotici, o forse nei meandri della sua anima.
Miriam pareva in uno stato di trance, la pelle del viso luminosa e soffice, gli occhi grandi fissi sugli ultimi tasti della quarta ottava. Immobile, come se il flusso dei pensieri e della volontà si fossero arrestati.
L’anima era viva, la sentivo pulsare. Era lei che mi aveva attirato in quel luogo. Mi avvicinai. La percepivo pensante, come un buco nero che ha risucchiato l’energia attorno a sé, ed ora soffre sotto quel peso.
Non riuscii ad interagire con lei, era troppo assorta e assente. Una presenza ai limiti della stanchezza.
Decisi di rimanere e aspettare. Mi guardai attorno alla ricerca di una sedia, ma erano state portate via tutte. Mi sedetti sul pavimento. Piano piano mi calmai, la velocità dei pensieri rallentò, e lentamente scivolai con lei in uno stato di trance. A contraddire quegli autorevoli studiosi che affermano che non si possa essere in uno stato di non pensiero, in quanto l’attività mentale non cesserebbe mai, in me, in quel momento, regnava il vuoto. Non avevo immagini né pensieri, né associazioni di idee, né preoccupazioni o aspettative o sogni. Il nulla si era fatto spazio ed ora era lì. Dopo ripensai a quanto fossero stati speciali i momenti come quelli, seppur spaventosi. Temevo che il mio cervello si atrofizzasse, come un muscolo non in funzione, ed io disimparassi a ragionare, e potessi cominciare a dimenticare. L’essere privo di pensieri inutili e il poter vivere semplicemente nell’attimo presente mi davano un senso di leggerezza, eppure un indefinito retrogusto di inquietudine si insinuava nella mia anima. Mi pareva di essere, in quei momenti, un vegetale. Vivo, vivissimo. E tutto il resto era superfluo, e mi era stato tolto, per grazia o per maledizione.
Passò anche quel momento, e tornai a sentirmi in un corpo, in un luogo, in una mente. Perché anche lei si era ridestata, e voltandosi verso di me sullo sgabello lo aveva fatto cigolare.
Mosse le labbra come a voler dire qualcosa, poi seguì un momento di silenzio, quasi si sentisse smarrita. Infine si scusò con qualche parola, per essere lì, e per essere mezza nuda. Si alzò e si diresse verso una delle camere. I piedi scalzi scossero il pavimento. Mi chiesi in quale stanza avesse dormito, se mai avesse passato la notte lì, e dal viso fresco e pulito immaginai che lo avesse fatto. Probabilmente aveva voluto dare un ultimo saluto alla casa, e la immaginai passare in rassegna tutte le stanze ormai vuote, come un rituale, alla ricerca di eventuali oggetti lasciati indietro o dimenticati in un angolo. Me la figurai a preparare un tè, per poi berlo dalla tazza dipinta che portava sempre con sé nella borsa. E infine, per via delle medicine, dormire profondamente, senza spaventarsi per i rumori di una grande casa vuota, per il cigolare e scricchiolare del legno, per il frusciare dei rami da lungo non potati che graffiavano alle finestre mossi dalla brezza notturna, e per i suoni amplificati dall’eco dei vani vuoti.
Tornò indossando una gonna a fiori, che le donava. Per un attimo avrei voluto andare via, non sapendo cosa dire, come giustificare il mio essere lì. Non sapevo di cosa avremmo potuto parlare né cosa avrei dovuto e potuto chiederle. Mentre pensavo a queste cose mi alzai senza rendermene conto, forse per andarmene, e lei mi venne incontro per poi abbracciarmi delicatamente, dandomi l’accenno di due baci senza toccare la mia guancia. Poi sorrise. Stava bene ed era di buon umore. Questo mi distese, e quando fu lei a cominciare a parlare mi sentii alquanto alleggerito. Mi chiese dove fossi ora e cosa facessi. Poi raccontò un po’ di sé, della sua situazione, stabile, nulla di particolare. Ma non durò a lungo che affiorati certi pensieri cambiò espressione, e tutto d’un tratto apparve stanca, spossata. Mi disse di aver bisogno, ora, di stare sola. Rimasi incerto per un momento, poi le risposi che certo, la capivo, e che avevo comunque l’intenzione di andarmene. Dopo un attimo di silenzio, mentre stavo per congedarmi, mi chiese se andavo via subito, se avevo la macchina, perché lei avrebbe avuto bisogno di un passaggio. E prima di tornare alle camere mi guardò e aggiunse: “Se però non parliamo”.
Ormai la conoscevo e non mi offendevano più i suoi modi di fare, pensando di sapere qualcosa della sua malattia. Dopo tutto quello che era stato, usare il termine ‘malattia’ suonava come una stonatura. Io stesso, in fondo, ne ero stato affetto, ne ero succube. E forse quelle corde stonate le avevamo ereditate entrambi.
Tornò quasi subito con una valigia viola, che posò accanto a me. Poi si diresse in cucina, dalla quale si sentì il tintinnio di qualche oggetto in vetro, poi il rumore dell’acqua che esce dal rubinetto e riempie un contenitore. Dopo poco riapparve con al braccio un cesto di vimini e nell’altra mano un barattolo di vetro con un mazzo di fiori recisi. Lo pose sul tavolo; non riuscii a capire se fossero fiori raccolti o comprati. Volevo chiederglielo, ma subito conclusi che era una domanda superflua. E notai come spesso fossi complicato, nel pensare, nel parlare, nell’agire. Di fronte a lei me ne vergognai quasi: lei, così semplice e diretta ai miei occhi.
Si avvicinò per riprendere il suo bagaglio e mi fece capire che era pronta.
Non chiuse la porta a chiave: forse ne aveva parlato con gli altri, forse lo stava dimenticando, o forse la casa ora rimaneva aperta. Ipotesi, quest’ultima, che mi parve poco probabile ma, nuovamente, non chiesi nulla e mi accontentai dei fatti così come li vedevo, sforzandomi di non voler capire tutto.
Il sole ancora donava luce, ma erano gli ultimi raggi che scaldavano. Gli uccelli ancora cantavano, i primi bombi ronzavano ancora qua e là. La macchina era aperta e sorridendo le feci segno di salire. Quando accesi il motore la radio cominciò a diffondere musica pop; la spensi subito, temendo di disturbare il silenzio, sia per lei che per me.
Il silenzio fu rotto, nuovamente, dal cigolio dello sgabello rotabile in legno. Avevo sognato, in quei brevi istanti. La casa era così impregnata di ricordi da penetrare persino nei miei sogni, influenzandoli. Miriam mi fissava con uno sguardo interrogativo, quasi un riflesso di quella che doveva essere la mia espressione di stupore. Cercava di decifrarmi, come fossi un enigma. Ci fu solo un attimo nel quale il suo volto parve oscurato dalla paura, come l’ombra di una nuvola passeggera. Mi ricordai della curiosità che mi aveva attratto lì, che ci aveva attratti l’un l’altro. E del fatto di non essere più come prima. Il mio inconscio non ne era ancora del tutto persuaso, come se le impressioni degli ultimi giorni non fossero state abbastanza forti ed intense.
Compresi allora il perché del suo sguardo. Era insolito il fatto che potesse vedermi; chissà che aspetto avevo ora. Gli ultimi giorni, o settimane, (il tempo ora non riuscivo a misurarlo), ero vissuto in solitudine, senza parlare con nessuno perché, se anche avessi provato, chi avrebbe potuto sentirmi? Nessuno mi vedeva, nonostante avessi l’impressione che qualcuno potesse percepirmi. Miriam, dal canto suo, mi stava proprio fissando.
“Come mai sei qua? La casa è vuota ora” prese a dire lentamente, come uno che parla a se stesso nei pensieri, senza fretta.
“La venderanno.”
Io ero senza parole; non avevo più pensato ad un contatto umano, ad un dialogo possibile. Era un’esperienza così lontana dal mio presente che me ne stupii come i bambini nel fare una nuova scoperta, ma senza entusiasmo.
Dopo poco si alzò, senza decisione né svogliatezza, e mi chiese di non andare via. Quando tornò aveva indosso un paio di pantaloni che non conoscevo.
Era passato tanto tempo, forse molti anni, dall’ultima volta che l’avevo vista, eppure non era cambiato molto in lei. Mi chiedevo invece quanto io dovessi apparire trasformato, se come il ritratto di Dorian Gray fossi invecchiato e mi fossi imbruttito, perché la mia anima era maledetta. Questo pensiero mi era sorto più volte e anche dopo la morte, di tanto in tanto, mi crucciava ancora perché in fondo, forse, era stato un suicidio, e i suicidi sono dannati. L’impressione che dentro stessi marcendo mentre fuori nessuno se ne accorgeva era una sensazione che ricordavo di aver vissuto più volte da vivo.
Miriam aveva intrecciato i lunghi capelli in una treccia che le decorava il capo. Era un’acconciatura fatta in fretta, non perfetta, eppure un segno di un voler essere più curata, fatto per se stessa, o per rendere omaggio alla bellezza. Mi piacque, e mi fece intuire la sua disposizione a parlare.
Si risedette sullo sgabello, accese una sigaretta, e poi mi chiese perché. Perché ero andato, nessuno lo aveva fatto prima in famiglia. E velocemente il tono di voce e la decisione nel parlare aumentarono, perché l’argomento era per lei vitale.
“Sei scappato, non hai resistito, è così? E cosa pensi, che sia facile per noialtri? No, è una maledizione per tutti! Forse non ti ricordi o non lo sai: alcuni bisnonni, così come il nonno, sono morti di Alzheimer. E credi che questa malattia sorga solo perché ereditata? Forse è così, ma ereditaria è anche la sensibilità, che ci consuma. Io non sono l’unica ed essere pazza in famiglia, lo siamo un po’ tutti. Quelli che riescono a parlarne, ed hanno qualcuno vicino, magari lo sembrano di meno. Ma nessuno è scappato; forse la famiglia, i figli, la moglie o il marito hanno assorbito la loro paura, il loro sovraccarico, e hanno compensato le loro mancanze.”
“Smettila ora”, dissi in tono secco. Ansimavo.
Non ci avevo pensato, o sì, certo che ci pensavo, come potevo non farlo! La nostra famiglia mi scorreva nel sangue, non potevo neppure per un istante dimenticare di appartenervi.
“Ma quando è forte, è forte, è insopportabile, è straziante. Non avevo mai raggiunto un momento così; ho gridato, ho chiesto a Dio perché, che cosa volesse da me, ma evidentemente Lui ha altri tempi, e altre logiche. Ed io sono debole. Davvero non riuscivo a respirare normalmente, non ne vedevo via d’uscita, non sapevo cosa fare. Era uno strazio enorme, non sapevo come rimanere vivo. Ho pensato che parlarne con qualcuno avrebbe alleviato il dolore, almeno un poco, da riuscire a resistere. E ho chiamato qualcuno, credimi, ci ho provato, ma proprio in quel momento il numero era occupato. E poi non so bene cosa sia successo, ricordo solo che ero a terra, e tremavo, mi tremavano le mani, che portavo al viso. E avevo i crampi, e non avevo più voce né energia per gridare. E poi qualcosa dev’essere successo, devo aver fatto qualcosa fuori di me, qualcosa di stupido. Non mi ricordo, cerca di capirmi, e non mi giudicare.
Quel che è successo è passato. Che Dio abbia misericordia! Se mi ha dato un dolore così, e non la forza per superarlo, la colpa non è mia, è sua.”
Avevo il fiato corto, e tacqui. Tacemmo entrambi. Il vento si andava alzando e i rami cresciuti più che proteggere la casa la volevano ferire a graffiate. La luce che entrava dalle finestre si fece meno intensa, ormai il sole era tramontato, si fece anche più fresco. Lei si alzò, prese da sopra il pianoforte il candelabro con una sola candela, rossa, da poco cominciata, una scatola di fiammiferi, e fece luce.
“Tu poi stai lì,” ripresi, “e non fai niente tutto il giorno. Certamente pensi e avrai tante impressioni da rielaborare, come me. Ma prima invece, quando sono arrivato, tu sembravi così in pace, e spesso lo sei, e non sei turbata; riesci a stare tranquilla. Questo te lo invidio. Io invece di essere tranquillo ero diventato alieno, avevo messo un’armatura contro il mondo e contro me stesso. Ma non mi ero accorto del fatto che la battaglia silenziosa e senza tregua si stesse combattendo proprio dietro alla mia corazza.”
“Oh no, ti sbagli!”, ribatté lei, con parole che le uscirono di getto, come una reazione involontaria e immediata.
“La pace è solo apparente, non esiste su questa terra… Poi,” riprese, “prima di tutto prendo delle medicine, dei calmanti, altrimenti non sai come reagirei, e non ci voglio neppure pensare. Non sono assolutamente in pace, tranquilla e spensierata come credi tu. E non sto tutto il giorno a far nulla, pigra e viziata! Sono tormentata da pensieri che mi consumano e mi portano all’esaurimento. Come dici anche tu, siamo persone sensibili; in me rimangono impresse tutte le esperienze che faccio, quelle che ho vissuto, spesso passivamente o senza poter fare nulla per cambiarle. E sono tante situazioni per me ancora senza risposta, che mi interrogano inconsciamente, e ininterrottamente, come un programma che continua a consumare energia in sottofondo senza che sullo schermo si veda. Sono cose che mi porto dietro dall’infanzia alle quali via via se ne aggiungono altre. E non ho la forza di affrontare questi ricordi apertamente dandogli spazio e forse dissolvendone così la problematicità. Non ce la faccio, per quanto mi critichino i terapeuti inesperti che appena mi conoscono. Non ce la faccio, e così rimangono lì, a consumare energia. Per questo non riesco a concludere molto nell’arco di una giornata. E se non sto un poco attenta, piombo in uno stato depressivo che mi trascina sempre più giù. E lì prendo altre medicine. E più medicine prendo meno forze ho per fare una qualsiasi attività. Per vestirmi e fare una doccia devo spesso costringermi, e poi va meglio, un’azione tira l’altra: mi metto in moto per così dire, e mi motivo, ma presto torna lo stato di impotenza, la sensazione di essere solo inutile e incapace di vivere. Cucinare non ne parliamo. Certo, quando siamo insieme in clinica riesco a fare molte più cose, perché c’è qualcuno che mi incoraggia, e tanti simili a me, chi peggio e chi meglio, e ci si aiuta un po’ a vicenda.”
Fece per aggiungere altro, le labbra ancora socchiuse, il fiato sottile di un discorso non terminato, ma poi serrò la bocca e il respiro tornò in lei, il torace si calmò, e recuperò la sua stasi.
Mi apparve come un concetto nuovo, quello dell’attività mentale e psichica che consuma le energie fisiche. Eppure lo avevo vissuto anche io, ma non sarei stato in grado di spiegarlo così chiaramente. Mi parve un pensiero illuminante, mai pensato, che mi alleggerì un po’ dal peso che avevo sull’anima, quasi avessi ora un alibi, un argomento a mia difesa.
Mi sentii ad un tratto crollare addosso tanti giudizi negativi dati senza conoscere, senza sapere quello che in realtà certe persone (tra cui ora forse dovevo annoverare me stesso) stavano vivendo dentro, ed in particolare il mio atteggiamento, durato una vita, nei confronti di mia sorella. Mi pareva di dover rimettere in discussione ogni relazione, di dover riconsiderare ogni impressione avuta sugli altri e sulle loro azioni. Mi vennero le vertigini. Mi alzai da terra con l’intenzione di allontanare quei pensieri. Mi sentivo come sceso da un aereo e ancora nella fase di riadattamento, un po’ ignorante e un po’ colpevole.
Andai in cucina a preparare una camomilla per calmarmi, o forse sarebbe stato meglio qualcosa di forte come un caffè. Mentre l’acqua veniva portata a ebollizione, preparai sia una teiera per un infuso che una caffettiera francese, poiché non riuscivo né mi importava di dovermi decidere.
Mi tornò alla mente un’altra scena di me, nell’acqua, la sensazione dei vestiti che si facevano pesante fardello, mentre io restavo immobile, senza oppormi. Che fossi morto annegato? Era nuovamente una di quelle situazioni che non riuscivo a mettere in ordine cronologicamente.
Portai teiera e caraffa su un vassoio. Quando lo appoggiai sul tavolo mi ricordai che ora non bevevo più. Mi risedetti sul pavimento, con lo sguardo confuso a terra. Non sentivo più la piacevole fragranza della tostatura, ma a pensarci ricordai come da bambino entravo in quella stanza seguendo l’odore del caffè che i genitori bevevano al mattino. Quello era, insieme alla melodia di qualche disco di musica classica, il segnale che, dalle camere, ci avvertiva che era ora di colazione.
Forse esausto per gli ultimi avvenimenti, forse stanco per i troppi pensieri, mi addormentai accasciato sul legno, nonostante cominciasse a far fresco. Sentii ancora dei passi accanto a me, verso il tavolo, e poi altri indistinti e lontani, che non avevo voglia di decifrare, come quando nel dormiveglia i rumori non prendono subito significato, e lo sforzo di cercare di capire cosa sono mi avrebbe ridestato.
Un festoso cinguettio mi risvegliò; era poco prima dell’alba. Il sole ancora non era sorto, ma le tenebre andavano pian piano a dissolversi. Alzai lo sguardo e la vidi lì, dove era sempre, vicino alla grande vetrata, che fumava la prima sigaretta del giorno.
Anche lei mi vide, e fu come un riportarmi in vita. L’essere visto mi ridonava fisicità, e mi tranquillizzò in qualche modo. Guardandomi negli occhi mi salutò con cordialità, come familiari che si scambiano i saluti al mattino, senza grande entusiasmo, con abitudinarietà, ciò nondimeno con gratitudine. Ricambiai. Poi andai in bagno, mi rallegrai per l’acqua che sentivo ancora fresca e per il nuovo giorno. Rientrato in corridoio, invece di tornare in sala mi voltai verso le stanze più lontane ed entrai nell’atelier. Non c’era più nulla, solo tracce di vissuto sulle assi e sui muri. Un lieve odore di acquaragia ancora impregnava l’ambiente. La luce entrò dalla finestra, filtrata dalle giovani e verdi foglie del salice bianco.
E quella stanza evocò in me un ricordo.
Mamma e papà erano seduti al tavolo rotondo, invaso da carte ed altri oggetti di vario genere, spostati a lato per far spazio a due tazze di caffè. Avvolti da una nuvola di fumo sembravamo uscire dalla nebbia di una sceneggiatura teatrale. Quando mi avvicinai alla stanza ero un bambino un po’ cresciuto, preoccupato perché aveva sentito i genitori gridare e litigare. Quando però sbirciai dalla porta socchiusa li vidi sorridere e fare battute, la tensione si era già sciolta. Ricordai qualcosa del tema di quel litigio. Erano argomenti che si impregnavano nella mia anima, uno dopo l’altro, e che non avrebbero più smesso di influenzarmi inconsciamente. Erano come la colla di coniglio, e preparavano una tela sulla quale io avrei forse potuto e dovuto dipingere un’opera grandiosa, immortale. Ma le cose andarono diversamente.
Avevamo ereditato, sia da parte materna che da quella paterna, dipinti di vario genere e disegni e cartelle, da nonni e talvolta bisnonni artisti. Erano oggetti che si tramandavano da generazioni, per venir poi di volta in volta spartiti tra i fratelli e le sorelle della generazione di turno. Ognuno ne possedeva diversi, scelti o meno. Ricordo che passavo volentieri ore intere a sfogliare quelle carte, sovente ingiallite e sbiadite. Spesso però, diceva la mamma, erano solo schizzi preparatori o bozze, niente di valore; eppure, io, in quel ritratto incompleto o in quell’abbozzo di paesaggio vedevo bellezza. E quei frammenti di bellezza mi attraevano. Una volta la mamma affermò che per un artista i lavori di preparazione all’opera finale, o le opere mal riuscite, di cui non è soddisfatto, hanno un’anima, ma vive in essi una bellezza incompleta o sbagliata, e l’artista vede in essi l’errore e al tempo stesso il percorso verso la perfezione, per cui non riesce ad eliminarli e neppure vuole che qualcuno li veda. Se lui non c’è, preferirebbe che andassero distrutti. La mamma lo diceva solo in teoria. Papà invece agiva.
Quella volta si trattava di grandi tele, di nudi incompiuti, dipinti preparatori per un’opera commissionata ad un bisnonno. Li avevano tirati fuori da non so dove, e dovevano decidere cosa farne. Erano lì, appoggiati alla parete, uno sull’altro, alcuni intelaiati, altri arrotolati. Avevo sentito la voce di papà proclamare infervorato: “Non ha senso accanirsi per tenere in vita le opere mediocri di artisti che appartengono al passato, o spendere montagne di soldi per restaurare il passato; è solo la paura di lasciar andare e dar spazio al nuovo, paura che quello che viene possa non essere all’altezza. Ma se anche fosse, ogni tempo ha la sua arte, che esprime le esigenze e la vita del suo tempo. Fare una selezione e gettare qualche operetta non significa disprezzo, quanto invece rispettare l’artista come esponente del suo tempo, dei suoi problemi. E se questi erano schizzi e non opere complete ci sarà stato un motivo; se lui non ha avuto il coraggio di gettarli via, dobbiamo farlo noi. La nostra casa non dev’essere un museo, ma un posto dove scorre la vita.”
Il giorno dopo notai le tele fuori dall’ingresso inferiore, quello secondario, tagliate a metà, e nelle settimane successive, a seguito di un riordino che avevano indetto in casa, sacchi neri pieni di fogli e di stampe ingiallite. Non capii il perché e mi sentii ferito, come avessero fatto un affronto all’arte che io veneravo. Corsi a cercarli e arrabbiato gridai che non capivano niente di arte, che avevano gettato via delle cose belle, e che avrebbero dovuto chiedermi prima il permesso. Di nascosto poi rovistai in quei sacchi, e trovati dei piccoli tesori, li nascosi nella cartella che tenevo sotto il letto, dove conservavo quello che riuscivo a trovare e che mi piaceva. Per dopo, per chissà quando, per darmi un giorno l’ispirazione per creare un’opera unica.
Fin da piccolo l’essere parte di una famiglia di artisti era un fatto scontato per me, non ci pensavo. Quando a poco a poco cominciai ad intraprendere, con gli studi, un percorso formativo, non pensai mai all’accademia. I miei genitori non dissero nulla, per non influenzarmi, ma avevano sicuramente nutrito delle speranze. Nel ripensarci anni dopo provai una certa rabbia nei loro confronti, per non avermi avvertito, per non avermi mostrato ciò che mi scorreva nelle vene. Forse, se lo avessero fatto, le cose sarebbero potute andare diversamente; avrebbero seguito un corso più naturale e più sano.