Mi fermo a te – Capitolo uno
Ecco il primo capitolo del romanzo Mi fermo a te di Graziella Deiana!
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Capitolo uno
Ci sono due sole cose che mi separano dal mondo, due soltanto, le conto come fanno i bambini: con le dita, pollice e indice. Due cose soltanto.
Ci sono le tende in organza blu, l’organza e il blu mi fanno male, in egual misura: sento partirmi una fitta dall’alto dello stomaco quando guardo quelle tende. L’organza mi ricorda mia madre che stende e che stira, noi due alle estremità opposte di lenzuola ancora profumate
– Tira, tira verso di te – io che sparisco sotto al lino leggero.
– Sono un fantasma – e inizio a girovagare per la casa vestito di federe e rimproveri.
Mia madre non è mai stata bella, ma è sempre stata madre, da ancora prima di partorirmi, da molto prima di avermi anche solo pensato.
Mia madre ha i fianchi larghi, li tiene nascosti sotto vestiti di una taglia più grande, vestiti pieni di fiori e puntini. Mi si riempie la testa di puntini se ripenso a lei, distese di puntini e tulipani con i petali sgualciti da un’inattesa pioggia di aprile.
– Cosa vuoi mangiare? – La domanda che mi fa più spesso, un intercalare fra consigli e raccomandazioni, mi insegue nelle stanze e per le strade, vuole nutrirmi e bastarmi, un’ossessione affettuosa e figlia di una guerra scampata per un soffio, il suo soffio che si posa su un altro fiore e spande altri petali.
Mia madre la guerra non l’ha mai vissuta, scampata per un mese, un mese soltanto, nata a maggio fra le ceneri e i canti di liberazione.
Il blu, il blu mi fa male come l’organza, il blu del mare a ottobre, quando non c’è nessuno e nell’aria il sale si mischia agli echi dei bambini ripartiti.
Blu cielo terso, i miei occhi ancora troppo piccoli pieni di interrogativi e orfani di risposte; mia madre che mi tiene seduto sulle sue gambe nascoste come i fianchi.
– Trotta, trotta cavallino.
– Pane burro e marmellata – e allora mi sposta dalle sue gambe alla sedia, sparisce dietro alla porta, ritorna con un piatto in una mano e un bicchiere sempre pieno nell’altra.
Il sorriso di mia madre, gli angoli della bocca che le si sollevano diversi e irregolari, quei denti bianchi bianchi, mai fatti allineare.
Il sorriso di mia madre è un vagabondo, le va in giro addosso per tutto il viso e per tutto il corpo: le sorridono gli occhi neri di ebano e ricordi, le sorridono le braccia che senza accorgersene continua a muovere nel poco spazio che sente di meritare nel mondo, le sorridono i capelli che anarchici non
sanno resistere in nessuna pettinatura.
Poi c’è la finestra con i vetri sottili, tanto sottili che quando si alza il vento non la smettono di tremare insieme al mio cuore. Una finestra che tengo quasi sempre chiusa, la apro alla sera, per far entrare altro silenzio e aria nuova.
C’è un lampione proprio sotto alla mia finestra, una luce calda e gialla come quella delle case dove ci si aspetta per cena.
Tengo le persiane sempre aperte, perché ho paura del buio, ancora e più che mai, e insieme alla luce gialla arriva la sua voce lontana ma distinguibile:
– Sto io qui con te, fino a che non ti addormenti – l’abat-jour da cui non riesco a separarmi, i suoi fianchi nascosti ma presenti, la sua carezza infinita, il suo passo lento e delicato
su un tragitto che la porta sempre troppo distante da me.
Credo che lei si chiami Sara, me ne sono convinto per una vaga somiglianza con una compagna di banco del ginnasio di cui non ricordo il colore degli occhi. Sì, credo che si chiami Sara, come quella della canzone che ha imparato a memoria quando era piccola e senza pensieri capaci di farle paura.
Sara è giovane ma è già mamma, lo è diventata prima di diventare donna, prima ancora di avere trovato il suo posto nel mondo.
Sara vive al terzo piano e chiude tutte le persiane prima di uscire, scende le scale tenendosi incollato addosso il suo bambino come se avesse paura di perderlo per sempre, lo tiene sulla sinistra – la parte del cuore – e poi gli parla, gli parla ogni giorno.
Tendo l’orecchio e l’ascolto mentre gli sussurra frasi che lui non può capire e non potrà ricordare: gli racconta della sua scelta imponente e contrastata, del groviglio di emozioni che ha provato il pomeriggio in cui la sonda dell’ecografo lo ha trovato nel buio del suo utero troppo giovane.
– È solo un puntino, è solo un’ipotesi.
Sara non ricorda nessuna favola da poter raccontare al suo bambino e allora gli racconta dei suoi sogni lasciati a metà, sospesi nell’aria del loro mondo che profuma di borotalco e
mele cotte e schiacciate.
Sara parla alla sua immagine riflessa nello specchio che ha appeso davanti alla finestra, si veste di coraggio e scelte inevitabili.
– L’unica decisione possibile – un puntino che diventa il centro esatto del suo universo.
Si specchia da sola, poi si rincolla il bambino addosso – sempre a sinistra – e le paure non riescono a raggiungerli.
Inspiro forte, vorrei andare a vivere con loro, chiudo gli occhi, mi concentro e mi ritornano alla memoria le parole di quella canzone in cui Sara è solo un’adolescente che deve andare a scuola.
– Da grande voglio fare la pasticcera. – Sara ridiventa bambina e torna a sognare, si solleva in punta di piedi e io vorrei stringerla, stringerla forte.
Una polaroid solitaria, appesa con un magnete quasi invisibile al centro esatto dell’anta del frigo color antracite.
Siamo soli, io e lei, colori sbiaditi da un tempo che non ci ha mai risparmiati né cambiati.
Soli, io e mia madre, armature invisibili fatte della mia spensieratezza di bambino e del suo coraggio di donna dimenticata.
Altri mezzi sogni, progetti abbandonati e case mai finite di arredare.
– Io lo tengo. – Le mani di mia madre che si posano su una pancia appena accennata, la sagoma di un uomo alto e potente che velocemente si allontana in un groviglio di calcoli e ragioni.
Sempre noi: una culla che regna sovrana e incontrastat a in mezzo a una stanza troppo grande per due soltanto, i suoi occhi, sinceri e bagnati e i miei, ancora illusi e meravigliati.
C’è un po’ di mia madre in Sara e c’è stata un po’ di Sara in mia madre: si specchiano simili, quasi identiche, l’una nell’altra e poi insieme nello specchio davanti alla finestra lasciata aperta. C’è un po’ di eroismo nelle loro scelte, nelle loro mani fatte apposta per accarezzare, nel loro corpo fattosi culla e
fortezza per vite nuove.
Una polaroid solitaria, al centro esatto dell’anta del frigo pieno solo a metà, un vasetto di marmellata di fragole in pezzi grandi. Ho tolto l’etichetta, fingo sia quella che mi preparava lei e allora la rivedo, vestita di grembiuli a quadri grandi, il cucchiaio in legno intagliato a mano, la frutta che sobbolle insieme allo zucchero, i barattoli a ricoprire quasi tutto il tavolo della cucina.
Mi rivedo, accecato dai fumi dolci che si levano dalla pentola di rame, mi rivedo piccolo e affettuoso e poi cresciuto e sfuggente, mi rivedo a elemosinare abbracci e poi a rifiutarne, convinto di non averne più bisogno.
Una polaroid solitaria, una soltanto.
Somiglianze impossibili da trovare, un destino beffardo che ci ha voluti fisicamente agli antipodi; sento ancora la colpa per averla costretta ogni giorno a fare i conti con i miei tratti troppo simili a quelli del fuggiasco che le ha straziato l’anima e poi il cuore.
Avrei voluto somigliarle per davvero, alleviarle il peso di quella bolla monogenitoriale dove fluttuavamo a tratti felici e a tratti stanchi.
Una polaroid solitaria, i suoi capelli sciolti tutti su un lato, le palpebre senza trucco e segnate dai doppi turni, le sue braccia sottili ma forti, al collo un rosario e preghiere sospese.
Puntini, altri puntini, sul suo vestito e tutti in giro per la mia testa.
Io seduto sulle sue ginocchia, io che sorrido convinto che il suo abbraccio sia il posto migliore del mondo, lei che prega in ginocchio senza lasciarsi sentire, io che conto i membri della nostra famiglia, lei sul pollice e io sull’indice, noi due soltanto.
Basta così, ci bastavamo così.
Lei è Anna. Non ho dovuto indovinare come si chiamasse, se l’è scritto sul polso sinistro insieme a un cuore coi bordi irregolari.
Starla a guardare mi rende irrequieto, mi muovo sulla sedia. Trotta, trotta cavallino, Anna è sempre in ritardo, esce di corsa con il casco in testa e lo zaino che le pesa sulla schiena mai guarita.
Anna porta tre braccialetti sul polso destro, due blu come il mare e come le tende e l’altro giallo come la luce del lampione e delle distese di grano.
Anna ha sempre fretta: di scendere, di andare, di crescere. L’urgenza le si legge negli occhi mentre cammina veloce sulle note delle canzoni che ascolta dal suo i-pod pieno di graffi e adesivi.
Anna l’ho vista cambiare, in un pugno di anni e poi in una manciata di stagioni; l’ho osservata ancora bambina, mentre dalla sua stanza con le pareti pastello guardava il cielo nelle sere d’estate, ho visto i suoi occhi trasognati bramare una stella che cadesse per lei soltanto, ho visto i suoi sorrisi trasformarsi in smorfie di dolore, ho assistito impotente alla messa in scena della rabbia che si sostituiva a ogni sua debolezza.
Anna si è tatuata di nuovo, sul polso sinistro; l’inchiostro ha coperto il suo nome e quel cuore ancora troppo recente: Freedom, scritto in grande su fino al gomito, una macchia nera come la rabbia quando è ancora acerba.
Le canzoni che ascolta Anna se le canta dentro, sottovoce, e parlano di donne forti che lottano e non piangono, di donne che vivono ai margini e negli angoli delle aule, di donne bersagliate, investite dai giudizi, di donne coi cuori rattoppati.
Solo, di spalle alla scuola fatta di mattoni rossi e finestre senza persiane, ho la cartella di cuoio rettangolare che occupa troppo spazio sul mio corpo ancora piccolo, le cinghie tirate strette, tanto da farmi male, ma lei voleva così perché non mi si guastasse la schiena.
Ho i polpastrelli sporchi di inchiostro, profumano di pane e marmellata e poco burro.
Sento i miei compagni di classe ridere nella danza che li ricongiunge alle loro madri sempre puntuali.
Ridono, ridono perché sono felici e poi ridono di me, piccolo e solo contro tutti, ridono perché sono diverso; un’accusa che non capisco, fingo che mi scivoli addosso ma che se ne resta lì, ottusa e spietata.
Affondo le mani nelle tasche scucite del grembiule, recupero palline di carta e saliva, armi di quegli anni, bombe inesplose per tutto il resto della vita.
Sento una mano posarmisi sulla spalla, lascio andare le palline. Un’altra mano sulla spalla rimasta libera.
Un bacio leggero vicino all’orecchio, un respiro caldo che sa di tabacco e caffè polveroso.
Mi giro e la vedo: mi è venuta a prendere, alla fine del turno di lavoro. La vedo affrettarsi lungo la strada che porta alla scuola, fatta di mattoni rossi e di guerre di cui nessun libro racconterà mai.
Ha i capelli sottili, attaccati alle tempie e ribelli tutto intorno.
Suda lavoro e fatica, ha gli occhi più stanchi del solito ma mi sorride come forse non aveva fatto mai prima d’ora.
C’è il sole che cade dritto sulle nostre sagome immobili ma non abbiamo ombre né parole.
Restiamo a guardarci e basta, con la stessa magia delle prime volte.
Le vorrei chiedere di restare lì per sempre, di trasferirci in quel piazzale di polvere e ghiaia, così che tutti possano starci a guardare e guardandoci capire che ci bastiamo, che bastiamo noi due soltanto.
La abbraccio all’altezza dei fianchi celati, sento la carne morbida, non trovo le ossa, faccio su e giù con i polpastrelli macchiati sopra alla stoffa cobalto piena di puntini.
Vorrei avere un gesso in tasca, vicino alle palline, vorrei disegnare sull’asfalto un rettangolo grande grande, sezionato all’interno, vorrei fingere di non sapere giocare a campana, chiederle di insegnarmelo di nuovo.
Vorrei che avesse pietà di me e della mia giovane rabbia, vorrei che si piegasse per me, a raccogliermi per sempre.
C’è un po’ di me in Anna, abbiamo abitato negli stessi angoli, militato in eserciti nei quali eravamo soldati solitari. C’è un po’ di Anna in me, che sono arrabbiato e ho delle grida intrappolate in gola.
Lo chiamano Marietto.
Ha i capelli bianchi bianchi come la neve in montagna, è morto e risorto dieci volte almeno, il suo corpo è pieno di cicatrici, ha un tatuaggio, anche lui a sinistra, sei numeri sbiaditi e mal allineati. Lui ha tempo e un orologio fermo, lo tiene a sinistra, sopra ai numeri, perché è lì che tutto si è fermato.
Marietto indossa camicie che lascia asciugare al sole, le appende a una sedia davanti alla finestra del suo bilocale al piano terra.
Cammina tutto il giorno su e giù, avanti e indietro, fino a che il sole tramonta e gli mette malinconia. Saluta con un cenno della mano e quando sorride è come se raccontasse: lui ha tempo e troppe storie; se le sta dimenticando – una per una – macerie e sirene mescolate nell’abbraccio di una dea terrena che lo aspettava ogni sera e lo guardava mangiare.
Me li ricordo, teneri come bambini, soffiare sul brodo bollente fatto con verdure di orti lontani; si parlavano in dialetto, solo in dialetto, il loro codice ormai segreto, le stesse parole quotidiane per il loro amore sempre uguale.
Ninin la chiamava lui, le spostava i capelli dietro alle orecchie, fili sottili d’argento, la imboccava con il cucchiaio piccolo, piccolo come lei.
Ninin è morta, una volta, una volta soltanto e Marietto avrebbe voluto tenerla per sempre lì, lontana dalla terra e dal cielo, immobile con le mani giunte anche lui, steso al suo fianco; si sarebbe girato solo per starla a guardare, come quando dormiva, recitandole quell’impossibile promessa di raggiungerla
presto e per sempre.
Ninin se n’è andata, se n’è andata per davvero, la carta del suo necrologio s’è sciolta sotto alla pioggia e alle lacrime. Ninin se n’è andata, sottoterra, insieme alle radici e alle storie dimenticate. Marietto continua a vederla e ci parla ogni sera – Arrivo, arrivo da te – glielo sussurra piano, si corica nel
letto come in un sacrificio alla sua dea mortale, le tende la mano che trema, la cerca nel vuoto e poi nel silenzio.
Matteo vive al quarto piano, paga l’affitto facendo il cameriere, studia Filosofia e fuma Gauloises come Prévert e Picasso; sorride quando ci pensa e io sorrido con lui.
Matteo sfugge dagli specchi e dai legami affettivi, ha le guance segnate dall’acne di un’adolescenza a cui non vuole più pensare.
Mi perdo a osservarlo mentre scrive a penna sui margini delle pagine sdraiato sul divano letto del suo monolocale, inciampa sulle pile di libri, si addormenta e sogna un futuro che gli sembra sempre troppo lontano.
Quando esce Matteo cammina con lo sguardo sempre basso, alza gli occhi solo per cercare Anna sulle scale e per la strada.
Qualche volta scrive anche di lei, di Anna, di cosa potrebbe essere di loro se solo avesse più coraggio e meno paura; mi sciolgo mentre si concede l’illusione di quell’amore per il quale non trova senso e spiegazione.
C’era una volta… C’eravamo noi…
Vedo i suoi occhi cambiare al ritmo di un’ispirazione a cui non riesce a ribellarsi; vola via da qui, ritorna bambino e poi adolescente e pensare non gli fa più male.
Resto a guardarlo ancora, i nostri cuori battono all’unisono, sento che siamo fatti delle stesse utopie e degli stessi identici dolori.
Matteo torna qui, torna razionale, vuole dimenticare Anna e l’amore, tira righe spesse su quelle sue parole che sembrano poesie, cancella e finge di andare avanti e poi oltre, torna ai suoi filosofi che sente come amici, forse gli unici che abbia mai avuto.