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4 marzo: in crescita il “partito” degli astensionisti

A 30 giorni dall’apertura delle urne per le elezioni del 4 marzo, il declino della fiducia degli italiani verso i partiti politici, e il conseguente declino della volontà di partecipazione elettorale, pare non accenni a fermarsi, anzi cresce il “partito” degli astensionisti.
Secondo numerosi studiosi, l’esercizio del diritto di voto rappresenta uno dei principali indicatori del corretto funzionamento del rapporto tra cittadini e istituzioni, quindi della democrazia. Per altri, invece, un’alto livello di arecipazione non è sempre sinonimo di buon funzionamento della democrazia, poiché spesso è sintomo di una radicalizzazione delle divisioni e del conflitto politico, con effetti negativi sulla stabilità della democrazia stessa.

I risultati degli ultimi sondaggi

In Italia è comunque innegabile che i canali di partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e i meccanismi di rappresentanza stiano attraversando tempi bui.
L’ultimo sondaggio dell’Istituto Demopolis (pubblicato venerdì 2 febbraio) conferma una crescente disaffezione al voto degli italiani. Solo il 63% degli aventi dititto al voto si recherebbe oggi alle urne, con un calo di 12 punti rispetto alle ultime consultazioni politiche del febbraio 2013: ci sarebbero di fatto circa 5 milioni di astenuti in più. L’astensione, che potrebbe comunque ridursi nelle ultime settimane, colpisce indistintamente tutti gli schieramenti politici e si concentra in particolare nelle regioni del Centro e Sud del Paese.
Secondo le indagini di Demopolis, ad oggi circa 17 milioni di cittadini potrebbero non votare: il numero più significativo di essi, 13 milioni, è assolutamente determinato a non recarsi alle urne; oltre 4 milioni di elettori invece potrebbero cambiare idea e recarsi alle urne il 4 marzo.
Appare poi significativo il dato sull’astensione tra i più giovani. I dati che emergono dai sondaggi confermano le preoccupazioni espresse dal Presiente Sergio Mattarella, che ha più volte richiamato anche le nuove generazioni ad agire «per il bene comune», perché «nessuno deve chiamarsi fuori o limitarsi a guardare». Nonostante gli appelli, il 47% degli under 25 (circa 1 giovane su 2), si dichiara deciso a non votare alle prossime elezioni politiche. La maggioranza degli intervistati quindi crede che la politica non sia in grado di incidere sulla vita e sul futuro dei giovani nel nostro Paese.

Fuga dalle urne

A dispetto di questo continuo incremento dell’allontanamento degli aventi diritto dalle urne, in Italia l’astensionismo è da sempre un tema ai margini del dibattito politico e politologico. Troppo spesso i dati del fenomeno sono analizzati con l’attenzione che meritano solamente all’indomani dello scrutinio dei voti. Per cercare di comprendere come siamo arrivati agli odierni numeri del “partito” degli astensionisti, è necessario analizzare la “tempesta perfetta” delle politiche del febbraio 2013 e continuare a ritroso fino alle prime consultazioni elettorali del Paese, per scoprire la storia e le tendenze del rapporto tra cittadini e urne.

A questo proposito, vi proponiamo il volume Fuga dalle urne. Astensionismo e partecipazione elettorale in Italia dal 1861 a oggi di Federico Fornaro, pubblicato da Edizioni Epoké nel 2016. In questo saggio Fornaro ripercorre, dati alla mano, le diverse tappe della partecipazione elettorale in Italia: dallo stato liberale al difficile cammino verso il suffragio universale, bruscamente interrotto nel ventennio fascista; dalla “Repubblica dei partiti”, in cui i partiti di massa veicolavano una partecipazione pressoché totale e votare veniva visto come un obbligo civico, ai primi segnali di volatilità elettorale negli anni ’80; dalla “seconda Repubblica” fino alla “tempesta perfetta” del 2013, in cui si sono saldate tendenze di breve e lungo periodo causando una vera propria fuga dalle urne.

Riportiamo di seguito un estratto dal quarto capitolo, che si concentra appunto sulle ragioni e le conseguenze del boom di astensionisti dalle politiche di cinque anni fa.

La “tempesta perfetta” del 2013 e la crisi della democrazia rappresentativa

Il 24 e 25 febbraio 2013, con il loro voto (e non voto) gli italiani hanno generato un “terremoto” di intensità assolutamente straordinaria.
La percentuale di votanti è crollata al 75,2%, il dato più basso dell’Italia repubblicana (-5,3% rispetto al 2008 e -8,4% sul 2006): più di un italiano su quattro ha disertato le urne.
L’assetto bipolare della Seconda Repubblica è risultato così fortemente ridimensionato dal clamoroso risultato del MoVimento 5 Stelle, che alla prima elezione, superando il 25% dei suffragi, è diventato il partito più votato; si è registrato, infine, un livello di volatilità elettorale (39,1%) mai raggiunto prima nella storia della democrazia italiana. Gli anni dominati dalla «democrazia dei partiti» con il 90% e più di votanti sembrano distanti anni luce. La «vittoria mutilata» di Bersani e della coalizione Italia Bene Comune (che alla Camera hanno ottenuto la maggioranza dei seggi grazie al premio del Porcellum, ma al Senato non sono autosufficienti, neppure in alleanza con Scelta Civica di Mario Monti) restituisce plasticamente l’immagine di un Paese non soltanto diviso, ma sfiduciato e rancoroso.
Come è noto, alla crisi finale della lunga stagione berlusconiana (conclusasi come peggio non si sarebbe potuto immaginare tra gli scandali e il dileggio internazionale) non era seguita la fisiologica chiamata dei cittadini al voto, come sarebbe stato considerato normale in qualsiasi altra democrazia europea. Ragioni di opportunità e di responsabilità nazionale in relazione alla crisi economica e soprattutto al rischio di non sostenibilità del debito pubblico a causa della perdita di fiducia degli investitori stranieri (ripetutamente evocati dal Presidente della Repubblica dell’epoca, Giorgio Napolitano) portarono a preferire, nell’autunno del 2011, una soluzione tecnica della crisi affidata a Mario Monti, a cui diede il suo appoggio in Parlamento una «strana maggioranza» (Itanes, 2013) composta dai due maggiori partiti, il Pdl e il Pd, oltre all’Udc di Casini.
Con il Governo Monti, i maggiori partiti certificarono la loro debolezza, anche perché, nei mesi cruciali di novembre e dicembre 2011, come ha severamente osservato Marco Revelli:

Il Parlamento – e l’Italia è, occorre ricordarlo, una «democrazia parlamentare» anzi un «parlamentarismo di partito» – è rimasto del tutto assente dalla fase decisiva. E ciò non per una qualche responsabilità esterna (per una «usurpazione»), ma per esclusiva colpa propria. Per auto esclusione manifesta, dovuta alla propria assoluta incapacità di «fare politica»: non ha espresso nessun voto di sfiducia a sanzione della fine del precedente governo, non ha saputo selezionare al proprio interno la figura del successore, non ha dato vita ad alcun dibattito sulla situazione… Nulla. Un silenzio rotto solo dal successivo voto di fiducia plebiscitario espresso in «stato di necessità» e in ossequio a quanto deciso, preparato fatto altrove (Revelli, 2013: 17).

A pagarne in termini di consenso il prezzo più alto sarà il Pd, che non vedrà premiata dall’elettorato la sua scelta di rinunciare a una più che probabile vittoria in elezioni anticipate, perché, come ebbe a dire Pier Luigi Bersani, nell’aprile 2014: «Io non intendo vincere sulle macerie del mio Paese».
Il Governo tecnico guidato da Monti finì, così, per diventare per i partiti una devastante “Waterlooo”, certificata dall’esito delle elezioni politiche del febbraio 2013 e destinata a influire negativamente ancora a lungo nel rapporto di fiducia tra i cittadini e la politica. Incisero particolarmente alcune misure tanto utili e necessarie per garantire l’equilibrio e la tenuta dei conti pubblici, quanto impopolari e vissute come un autentico tradimento del legame fiduciario con lo Stato (la riforma delle pensioni e la tassazione immobiliare per tutte).

Al netto delle schermaglie mediatiche rimane il fatto che per oltre un anno gli italiani sono stati esposti a una trama difficile da interpretare dove non era chiaro quali partiti fossero responsabili del governo dell’economia; dove egualmente opaca era la narrazione dell’origine della crisi, domestica o internazionale; e dove per la prima volta l’Unione Europea entrava direttamente nel dibattito tra le forze politiche con un capovolgimento d’immagine: da virtuoso vincolo esterno e fonte di guida per il Paese a origine di ogni male (Itanes, 2014: 10).
In un sondaggio del dicembre 2011 la fiducia nei partiti politici crollò al 3,8% e quella nel Parlamento all’8,5%3.
Le conseguenze negative della “Waterloo” dei partiti da un lato oscurarono agli occhi dell’opinione pubblica i limiti e le deficienze dell’azione della maggioranza di centro-destra guidata da Berlusconi nel triennio 2008-2011 e dall’altro spalancarono praterie di potenziale consenso “all’imprenditore della protesta”, Beppe Grillo e al “suo4” MoVimento 5Stelle. Grillo fu infatti l’unico competitore che poteva dichiarare senza timore di smentita di non aver mai avuto responsabilità di governo e soprattutto poteva vantare una completa alterità rispetto al sistema dei partiti e alla Casta (dall’efficace titolo del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che nella primavera 2007 scalò in un battibaleno le classifiche di vendita, rimanendovi per moltissimo tempo, e soprattutto entrando prepotentemente nel linguaggio comune come definizione negativa dei politici e dintorni).

A sorpresa, poi, anche Mario Monti, il 23 dicembre 2012, decise di «salire in politica» alla guida di una coalizione composta dall’Udc di Casini, Futuro e Libertà di Fini e dal suo movimento Scelta Civica, al cui interno era presente anche il movimento Italia Futura di Montezemolo.
Sul centro-destra, invece, con un vero e proprio coupe de téâtre, Silvio Berlusconi, pochi mesi dopo essere uscito umiliato da Palazzo Chigi, riuscì con un’abilità comunicativa fuori dal comune a far apparire assolutamente normale il suo ritorno sulla scena politica e il suo tentativo (non riuscito per poche decine di migliaia di voti) di rimonta nei confronti di Bersani, come fu nel 2006 con Prodi.
In vista delle elezioni anticipate del 2013, dunque, l’offerta politica si presentava più ampia e diversificata rispetto al recente passato, in un quadro di minore polarizzazione (Tuorto, 2014).
Il cittadino-elettore non aveva che l’imbarazzo della scelta (all’estrema sinistra si era costituita anche la Rivoluzione Civile, capeggiata dal magistrato Antonino Ingroia), ma quella che continuava a mancare in larga misura era la fiducia nei partiti, nei leader e nelle istituzioni: è una cittadinanza rancorosa e offesa (Revelli, 2013) quella che si reca (o diserta) le urne nel febbraio del 2013.
Sul fronte del non voto, alla vigilia era prevedibile sia un significativo «astensionismo di protesta» contro le misure impopolari di austerità imposte dall’Europa a causa dei nostri deficitari conti pubblici, sia un «astensionismo punitivo» dell’elettorato di centro-destra come effetto del drammatico fallimento dell’ultimo governo Berlusconi, sulla falsariga di quello che era avvenuto nel 2008 nel campo del centro-sinistra a seguito della prematura fine del secondo governo Prodi.
Non era nelle previsioni, invece, un flusso rilevante in uscita da sinistra verso l’astensione per la coalizione di Bersani uscito vincitore dalle primarie contro il “rottamatore” Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze. Infine appariva difficile da ipotizzare la capacità da parte del MoVimento 5 Stelle di rimobilitare elettori delusi, in assenza di confronti possibili con precedenti elezioni.
Come già ricordato, per la prima volta dal dopoguerra, in elezioni politiche, nel 2013 la percentuale dei votanti ha sfondato la soglia simbolica dell’80% per fermarsi al 75,2%, con un calo del 5,3% rispetto al 2008.

La geografia dell’astensionismo ci restituisce un’Italia dove soltanto tre regioni hanno un’affluenza superiore all’80% (prima Emilia Romagna, poi, Veneto e Trentino Alto Adige) e ben sei regioni restano sotto il 70% (Puglia, Basilicata, Sardegna, Campania, Sicilia e ultima la Calabria). Rispetto alle elezioni del 2008, quando il calo dei votanti aveva avuto una distribuzione sostanzialmente uniforme su tutto il territorio nazionale, nel 2013 l’astensionismo è tornato a colpire in maniera più significativa le regioni meridionali. Al Sud il non voto è arrivato al 33%, contro il 24% del Centro e il 20% del Nord (Chiaramonte e De Sio, 2014: 80); una frenata rispetto alla progressiva omogeneizzazione del comportamento astensionista che parrebbe essere riconducibile all’esaurimento dei canali di intermediazione del voto a livello locale, dall’indebolimento della funzione regolatrice svolta dalle amministrazioni locali in crisi con i tagli di bilancio e, quindi, meno capaci di alimentare il gioco della clientela politica attraverso redistribuzione di lavoro e risorse. Questo scollamento è stato accentuato, probabilmente, dalla preoccupante e progressiva scomparsa, nell’agenda politica e sulla scena mediatica degli ultimi anni, dei temi dello sviluppo, del rilancio economico del Mezzogiorno che, evidentemente, le forze politiche (in gran parte di centro-destra) al governo locale non sono state in grado di contrastare adeguatamente (Chiaramonte e De Sio, 2014: 81-82).

Se si allarga il confronto alle elezioni del 2006, svoltesi in un periodo precedente all’inizio della crisi economica, è possibile evidenziare la dimensione eccezionale della “fuga dalle urne”: -8,4%.
In sette anni, all’interno dei quali si è manifestata una recessione economica anch’essa assolutamente non ordinaria per effetti e persistenza, la sfiducia nei confronti della politica si è tradotta sia nella scelta di non votare sia nell’abbandono della fedeltà nei confronti dei due maggiori partiti, Pd e Pdl, che tra il 2008 e il 2013 perdono 9,7 milioni di consensi, pari al 37,8% del loro patrimonio di consensi, sia favorendo l’irrompere sulla scena politica di un soggetto totalmente nuovo, il MoVimento 5 Stelle, dichiaratamente schierato su posizioni anti-sistema e radicalmente alternative ai partiti tradizionali.
Le analisi sulla connessione tra astensione e voto per il M5S indicano che solo al Sud il movimento guidato da Beppe Grillo ha ottenuto risultati migliori nelle aree a più forte concentrazione astensionista, mentre nel Nord la relazione è stata opposta (meno voti dove l’astensionismo è cresciuto di più). In altri termini, nelle regioni meridionali le violente scosse di “terremoto” prodotte dalla crisi nel tessuto economico-sociale hanno determinato una straordinaria spinta centrifuga, che si è indirizzata sia verso l’astensione sia a premiare una nuova proposta di alternativa al sistema fondato sui partiti.

Nel Nord, invece, il distacco e la critica nei confronti dei partiti e della politica ha preso, con più nettezza, la via diretta del non voto e il consenso al MoVimento 5 Stelle è arrivato principalmente da ex-votanti dei due maggiori partiti nel 2008, più che da una rimobilitazione degli astenuti di cinque anni prima.
Quella che si è verificata nelle urne nel febbraio 2013 ha, dunque, tutte le caratteristiche di un «tempesta perfetta» in cui, contemporaneamente e con una violenza imprevedibile all’inizio della campagna elettorale, si sono combinate tendenze di lungo periodo quali il progressivo aumento dell’astensionismo, la debolezza organizzativa e ideologica dei partiti con il conseguente affievolimento dell’identificazione di partito, e fattori di breve periodo generati dagli effetti laceranti nel tessuto economico e sociale del Paese, in conseguenza di una crisi senza precedenti per durata e intensità.

Federico Fornaro, Fuga dalle urne, Edizioni Epoké, 2016, pp. 97-103