Bea
Ecco il secondo capitolo del romanzo di Ivan Andrea Perina “Una settimana… un giorno”!
Puoi sostenere questo progetto fino a mercoledì 22 febbraio!
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I diritti d’autore del romanzo saranno devouti in beneficenza in favore dell’associazione Attivecomeprima Onlus che si occupa di migliorare la qualità della vita del malato oncologico e dei suoi famigliari.
Bea
Terza media al Giuseppe Ungaretti di Castel San Pietro, cittadina del Basso Piemonte di circa 30.000 abitanti.
Lo ricordo come fosse ieri, terza media: roba da adulti. Anzi, roba da chi adulto non è ma crede di saperne molto, della vita: ancora meglio che essere adulti.
Secondo giorno di lezioni, aspettavo Paolo e Manuel sui gradini della scuola.
La «Gazza» sulle ginocchia, comprata con la paghetta settimanale di dieci euro che mamma e papà mi concedevano.
Avevo appena appreso che Simone Barone, fresco campione del Mondo con la nazionale di calcio a Berlino, approdava al Torino calcio, e io sognavo per la mia squadra del cuore una stagione da protagonista dopo il ritorno in A.
Non erano stati anni facili per i granata, fallimenti, retrocessioni, cambi di proprietà, la squadra e i tifosi della storica società meritavano una tregua.
Una risata di ragazza, acuta quanto l’infrangersi di una lastra di vetro a terra, mi strappò a quei sogni di riscatto. Anna Garofalo. Mia ex compagna delle elementari che faceva parte del gruppo con cui uscivo i pomeriggi dei fine settimana, per passeggiare in Corso Italia e bere una cioccolata calda nella storica pasticceria del Principe. Chiassosa, Anna. Tutto quel chiasso un poco spegneva la sua bellezza, la sua grazia. Forse aveva paura di non essere ascoltata e ogni suono che le usciva di bocca era udibile a centinaia di metri.
Stavo per rituffarmi nella lettura dell’articolo su Barone quando notai una tizia camminare vicino a lei, una che non avevo mai visto.
Lì per lì ci feci caso ma senza grandi sconvolgimenti… poi si avvicinarono, ed il mio modo di percepire il mondo femminile cambiò. Improvvisamente. Per sempre.
Anna puntò verso di me, oltre alla nuova venuta vicino a lei c’era Camilla Briata, altra mia ex compagna delle elementari nonché migliore amica di Anna stessa, candidata di diritto a prima della classe nonché rappresentante di classe come l’anno scorso, del resto, e anche l’anno prima. Tipetta estremamente seria, ma con un suo fascino: ai miei occhi sembrava aver saltato due generazioni, ragionava già in modo indipendente, come una vera liceale o forse più.
Anna mi aveva incalzato: «Dado! Sempre con ‘sto calcio!».
Ma io non la sentivo.
Bea allungò una mano: «Piacere, Beatrice».
Io avevo le mani sudate. Per asciugarmi la destra come meglio potevo, mi alzai in piedi sperando che non si notasse che avevo afferrato la «Gazzetta» strofinandoci bene il palmo.
«Da… Davide» sentivo la fronte gocciolare, o forse era solo una mia impressione.
Lei mi sorrise. Il giornale mi scappò dalle dita. Lo acciuffai con un gesto goffo e scoordinato prima che toccasse terra.
Camilla, che era famosa anche per avere un discreto cinismo, non si fece scappare l’occasione: «Ehi Dado, è solo il secondo giorno di scuola, sei febbricitante… non vorrai già rimanere a casa, l’anno è lungo» e scambiò un sorrisino d’intesa con Anna.
Suonò la campanella, la prima che avvertiva di entrare nell’istituto. La seconda era per entrare in classe.
Le tre ragazze salutarono e si avviarono di corsa, io rimasi per qualche secondo a fissare l’ingresso che si stava liberando dalla massa di studenti.
Uno scappellotto di Manuel interruppe il mio trip: «Dai andiamo! Cosa fai? Stai male?».
«No! Momo! Ho visto una dea!»
«Eh? Ma sei fuori?»
«Momo, devi ascoltarmi. Tu sei il mio amico per la pelle. Insomma, siamo compagni di banco da anni… e tu devi essere sincero con me…»
«Minchia, Dado, stai sudando!»
«Lo so. Va be’. Ma non è importante…»
«Hai ancora fumato il rosmarino di tua nonna? Te l’ho detto che quel rosmarino…»
Seconda campanella.
«Momo, dopo ti racconto… non credo che esista un’erba che ti sconvolga tanto.»
***
Aspettai l’intervallo con la stessa eccitazione con cui un bambino di sei anni aspetta di spegnere le candeline della torta di compleanno.
Alle 10.30 in punto lodai a voce alta la puntualità di Romeo, il bidello della scuola, il re di tutti i bidelli, un uomo severo ma buono che ogni giorno dava il via al quarto d’ora di gioia durante una noiosa mattinata scolastica.
Uscii dalla classe e mi fiondai nel bagno dei maschi. Era diviso da quello delle femmine da una tramezza sottile a cui erano attaccati i lavandini e da cui si sentiva il vociare delle ragazze. Nella parte alta della tramezza c’erano due vasistas con i vetri fumé, di cui uno rotto in un angolo, salendo sul lavandino riuscivo a sbirciare dall’altra parte, ma la visuale dava sulla porta d’ingresso: non sui bagni.
Mi arrampicai per primo ottenendo l’esclusiva per quel giorno, vidi passare un po’ di ragazze ma senza farci caso, aspettavo Bea.
Giorgio Rambaldi, un bestione chiassoso, dalla risata fragorosa e una discreta vena da bullo, provò a convincermi un po’ con le buone e un po’ con le cattive a scendere.
«No, Rambo… oggi proprio no» fui categorico.
Lui a quel punto si fece ancora più aggressivo, ma al terzo strattone lo convinsi a desistere: cedendogli la mia merenda di metà mattina.
Intravidi la mia Dea quando mancavano cinque minuti alla fine della ricreazione, da quell’angolazione i frammenti del suo viso, quelli che riuscivo a cogliere dall’angolo rotto, mi scaldavano come raggi di sole che filtrano dalle nuvole. Il sorriso metteva in mostra i denti, bianchissimi, che risaltavano sulla carnagione olivastra, c’era una fessura tra i due incisivi, la piccola imperfezione in grado di rendere irresistibile un’opera d’arte. I suoi occhi erano definiti da un contorno che oggi direi «orientale», diventavano due fessure quando rideva di gusto.
Quasi persi l’equilibrio.
Di sicuro quella mattina persi la testa, per la prima volta.
L’infanzia era finita davvero.
Benvenuta, adolescenza…
***
Benvenuta, adolescenza…
Nei giorni successivi a quell’incontro, non pensavo ad altro, così mentre studiavo Dante, be’, la sua Beatrice me la immaginavo come la “mia”, lo stesso valeva per donna Laura di Petrarca e per la Fiammetta di Boccaccio. La mia mente la collocava in ogni narrazione di amore e di bellezza.
Le mie merendine erano diventate il pegno che dovevo pagare per poter continuare a sbirciare dal vetro rotto. Nei bagni, a voler curiosare non era solo Rambo, così per avere l’esclusiva sul posto dello spione dovevo accontentare anche altri curiosi.
Arrivai a portare anche tre o quattro merendine alla volta, mettendo mano ai risparmi accumulati con i regali di Natale e del mio compleanno: non volevo chiederli ai miei perché non volevo che si insospettissero.
Poi un giorno lo sguardo di Bea e il mio si incrociarono attraverso l’angolo del vetro rotto, la mia pressione sanguigna aumentò con la stessa velocità con cui aumentano i giri delle macchine di Formula Uno alla partenza.
Preso dal panico di essere scoperto, saltai giù dal lavandino, atterrai sbilanciato sul pavimento, fragorosamente, e andai a sbattere contro Marco Ferrigno.
«Ehi, coglione… perché non stai attento?!» e mi fissò con due occhi azzurri, da pazzo.
«Scusa, Ferro… non l’ho fatto apposta» e gli porsi la mano.
«Ooh… non l’ho fatto apposta…» ripeté lui storpiando il mio tono di voce e spruzzandomi il succo di frutta in faccia.
Mi asciugai. Gli saltai addosso. Arrivò Romeo, e dopo averci diviso ci accompagnò dal preside. Quello fu il primo di altri episodi in cui mi trovai di fronte a Ferrigno per uno scontro fisico.
***
Il secondo sabato dopo l’inizio della scuola, riprendemmo la solita routine delle vasche nel corso e della cioccolata calda.
Eravamo seduti al tavolo del Principe, io di fianco a Manuel, a parlare di calcio, come al solito, di fronte a noi c’erano Anna e Camilla, che parlavano dello stile divino di Britney Spears, come al solito.
Ad un certo punto, mentre mi stavo godendo la cioccolata fumante, che mescolavo meticolosamente con la panna, sentii il rumore della porta a vetri della pasticceria, che si richiudeva.
Mi girai istintivamente e rimasi di pietra. La cioccolata mi rimase a mezza via, tra epiglottide ed esofago, riuscii a deglutire solo perché Manuel mi diede un paio di colpetti sulla schiena.
Bea era entrata e non era sola.
«No, cazzo no… dai…»
Momo si zittisce.
«Non ci credo… con tutti quelli che le stanno dietro… proprio con lui?!» sussurrai.
Anche il mio amico era lì con gli occhi sbarrati, fissi su Bea e Ferrigno, che ci passarono vicino e salutarono distrattamente. Poi si sedettero a un tavolo davanti al nostro. A quel punto io presi la «Gazzetta» da un altro tavolo e mi ci rifugiai dietro, facendo finta di leggere.
Quella sera feci fatica a dormire, non avevo gli strumenti per elaborare quella delusione, mi ero fatto un film: lei sapeva appena che io esistevo.
Non avevo mai neanche provato un vero approccio e poi all’epoca non potevo competere con uno come Ferro, perlomeno non in quell’ambito. Lui era bravo a calcio, era di buona famiglia, anche se molti dicevano che era tutta scena e che il padre fosse pieno di debiti.
Da quel giorno cominciai a pensarci sempre meno, a Bea… il fatto che frequentasse un pallone gonfiato mi portava a sminuirla, o almeno ci provavo, a sminuirla, però quando mi salutava sorridendomi, semplicemente perché era educata, le poche volte che non la evitavo, facendo finta di parlare di cose importanti con i miei amici, be’, la gola mi si stringeva.
***
Dopo le vacanze di Natale non la rividi più a scuola, un giorno chiesi ad Anna se sapesse qualcosa e mi disse che i genitori di Bea si erano separati e che lei aveva deciso di tornare a Milano con la madre.
Questo mi provocò sensazioni contrastanti, da una parte ero disperato perché le mie flebilissime speranze di riuscire a farmi notare erano svanite del tutto, dall’altra ero sollevato perché non l’avrei più rivista insieme a Ferrigno.