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Risveglio traumatico

Ecco il primo capitolo del romanzo di Ivan Andrea Perina “Una settimana… un giorno”!

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Risveglio traumatico

Highway to Hell mi picchia in testa, saranno quindici minuti. No, non sono un fan degli AC/DC, ma come sveglia funziona. O meglio, funzionerebbe, perché dopo la serata di ieri non m’avrebbe fatto effetto neppure un colpo di mortaio a tre centimetri da un orecchio. Devo pensarci, a questa cosa di Highway to Hell al mattino.
Ieri ho cominciato la serata con un aperitivo al Derby. Mamma mia, ci pensavo: è il mio punto d’incontro con il mondo, ognuno ha un proprio riferimento di base e il Derby è il mio da più o meno quando avevo tredici anni. Contando che ne ho ventidue, tra poco festeggio la prima decade. Roba che segnerei su un diario, se tenessi un diario.
Dopo quattro o cinque Negroni sbagliati ho lasciato il bar e sono finito al Club Montale. Che poi perché un centro sociale debba prendere il nome da Montale non l’ho ancora capito. Cacchio c’entra con la poesia uno stabile ex sede della CGIL?! Vai a saperlo. O forse c’entra il gruppo di anarcononsisabenecosa che l’ha occupato dopo l’abbandono da parte del Comune. Bah. Ambiente vetusto, divanetti anni Cinquanta recuperati in qualche cantina o discarica, bancone del bar composto da due bobine dei fili elettrici, muri scrostati con sopra quei due versi ripetuti non so quante volte.

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera

C’era un tributo ai Pink Floyd, un gruppo di cinque teenager. O erano in sei? Comunque. Dubbio talento ma molto coraggio.
Stavano violentando Money, ma delicatamente. Devastavano The dark Side of the Moon e distruggevano Shine on You crazy Diamond. Ma con una discreta enfasi. Non sono un grande intenditore, ma l’udito non mi tradisce ancora.
Per sopportare meglio quel baccano ho buttato giù tre Coca e Havana, ero quasi sbronzo, quasi: non sono mai stato un grande bevitore. Così mi sono lasciato andare su un divano usurato dal tempo e ho cominciato a navigare sui social. Solita carrellata di foto su Instagram, solito sguardo su post incazzosi e saccenti dei tuttologi, fino alla chat con una ragazza conosciuta su Tinder, che abita a cinquecento chilometri da me. Comincio ad avere la sensazione di stare troppo tempo con la faccia davanti allo schermo dello smartphone, è una dipendenza, come le sigarette.
Dopo un’ora arriva Chiara, a salvarmi. Chissà perché tra noi è sempre mancata quell’alchimia, quel non so cosa che darebbe il via ad una vera e propria relazione. Comunque è bello, salvifico conoscere l’ex compagna di liceo con cui a volte si passa la serata… due single un po’ annoiati dalla vita di provincia che sfruttano una discreta attrazione fisica per passare qualche momento di piacere, a volte chiacchierare, confidarsi a vicenda. Ma forse è normale così.
Dopo I wish You were here e l’assolo fuori tono decidiamo di lasciare il centro sociale per andare da lei. Vive ancora con i suoi ma ha la stanza indipendente dal resto della casa. Mi piace quella stanza indipendente dalla casa. Entriamo con passo felpato, buttiamo giù ancora due bicchieri di rum, di quello che piace a me, scadente. Poi sulle note di Immigration Song dei Led Zeppelin, ma a basso volume, quasi zero, ci diamo alla nostra ginnastica ludico-ricreativa.
Non si può chiamarlo sesso, il sesso non è per forza legato ad una storia d’amore, ma è qualcosa di diverso dalla ginnastica, il sesso comincia al primo sguardo, non è solo voglia di un corpo, è diverso anche dall’amore, con cui a volte va a braccetto, è un’esperienza a parte: più unica che rara, come si dice in questi casi.
Per me e Chiara è quasi una routine ormai, di raro e di unico ci sono solo le notti passate a dormire insieme, dormire con qualcuno è una cosa molto intima, più intima della ginnastica che praticavamo.

***

Mi alzo dal letto con la testa che mi esplode, dicevo, pago le troppe sigarette unite all’alcool e alla musica del non-tributo di ieri.
Lascio ancora un po’ il telefono offline, non ho voglia di curiosare sui social e imbattermi in narcisismi vari. Selfie ritoccati, pipponi scritti da presunti esperti di politica e filosofia. Per non parlare di leggere e rispondere ai messaggi su WhatsApp.
Mi faccio un caffè e prendo un Oki, non ho nulla con cui fare colazione e allora decido di andare al Derby.

Esco di casa, sono le 10.30, mica l’alba, di un sabato mattina uggioso di metà aprile, la brezza di primavera mi riporta piano piano sulla terra, la testa inizia a macinare idee un po’ meglio, è sempre piacevole quando il mal di testa si affievolisce.

Arrivo al Derby, è quasi vuoto. E il quasi vuoto risalta l’arredamento anni Sessanta, con ancora appese sulle pareti le foto dei campioni di Milan e Inter di quel decennio.
Bob l’ha ereditato dal padre e dallo zio, rispettivamente tifoso rossonero e tifoso nerazzurro, se non ricordo male.
Di solito il bar è frequentato da una clientela variegata: dottori, operai, ingegneri, mantenuti, tutti con alcuni sani denominatori comuni quali frustrazione, alienazione, scazzo perenne e voglia di stordirsi, che soddisfano a volontà, quando l’unica sostanza legale e accettata dalla morale entra in circolo.

Alla mattina il Derby dà lo stesso senso di spaesamento dello stadio il lunedì. A guardar bene, c’è una vecchina che beve il tè e legge un quotidiano, lo spazzino imboscato nella sala dove una volta si facevano le maratone di briscola e scala quaranta, a volte persino il poker con soldi veri, ma sono anni che non gioca più nessuno, adesso quella sala la si usa per le feste di compleanno e di laurea.

Bob ha ereditato dal padre anche la passione per il Milan, e sta chiacchierando con suo zio Gaetano. Il padre Ernesto se n’è andato cinque anni fa e lo zio, da buon sfegatato interista, passa spesso a trovarlo per chiacchierare di calcio e appunto del derby della Madonnina, una partita che non finisce mai. Così cominciano sempre con le buone e poi finiscono a snocciolare statistiche su chi sia la più forte delle due. Il calcio ha il potere di farmi sentire ancora un bimbo.

Osservo Bob, grosso lo è sempre stato, ultimamente è diventato anche un po’ grasso. Fortuna che ha sempre quell’innato senso dell’ironia ed una capacità di mantenere la calma quasi disumana.
Dovrebbe insegnare alla facoltà di Psicologia come si gestiscono cinque o sei ubriachi alla volta senza perdere il controllo, i barman spesso hanno più pazienti di uno psicologo o uno psichiatra, ma nessuno riconosce loro il valore sociale di questo mestiere.
Chi viene qui di solito non lo fa per un caffè o cappuccino, qui si svuota prima il frigo del macinacaffè.

Se ve lo state chiedendo, io sono uno dei “panchinari”, ovvero uno dei più scarsi a reggere l’alcool. Questo mi permette di mantenere un fisico decente e la mente lucida, oltre che il portafogli un po’ meno vuoto.
Bevo solo nel weekend, in settimana devo studiare, solo in alcune giornate particolarmente frustranti mi concedo una birretta la sera. Meno di così mi sparo.

Chiedo il secondo caffè della giornata e prendo una brioche dalla vetrina, Bob per farmi un caffè ci mette il tempo che impiega a fare cinque cocktail, questione di allenamento e del fatto che nel frattempo con lo zio sono arrivati ai famosi derby di Champions, dove il Milan ha avuto la meglio di misura e con una certa fortuna nella prima occasione e poi con una vittoria più netta ma con polemiche arbitrali nella seconda, qui ci spendono sempre un’oretta di discussione. Minimo.

L’atmosfera da ospizio è rallegrata da una radio dalla quale escono le note di Glenn Miller, In the Mood ha sempre un effetto benefico su di me.
Mentre sorseggio il liquido nero improvvisamente le mie narici vengono pervase da un profumo di donna, non so se è Chanel n.5 o Hypnotic, ho sentito questi due nomi ma non ne so nulla di profumi, so solo che questo risveglia del tutto i miei sensi.
Sento una voce femminile ordinare un marocchino, Bob deve quasi ricorrere al manuale, negli ultimi dieci anni ne avrà serviti due, rimane fermo a pensare per una decina di secondi e poi esclama: «Ah sì… sì, ci sono… un “Marocco”… ci metto un attimo. Mi scusi, signorina».
Senza girarmi intuisco una certa sorpresa da parte della ragazza e vado a mia volta a ruota libera: «Di solito serve degli Americani o dei Russian, meno black e più white, non perché discrimina, è una questione di abitudine…».
Intuisco un piacevole sorridere, poi la voce femminile mi entra dentro: «Dado! Sei tu?».
Mi giro quasi di scatto, sono sorpreso sentendo pronunciare il mio soprannome.
Gli occhi mi fissano stupiti, neri. La testa è leggermente piegata e la bocca aperta in un sorriso.
Rimango immobile. Credo d’avere sul volto l’espressione di un bimbo davanti a Spider Man, visto per la prima volta e dal vivo, mentre spara ragnatele sui grattacieli.

Il mito della mia adolescenza.

Beatrice.

Non una Beatrice qualsiasi.
Beatrice Mazzocchi. Bea. Per me… semplicemente Dea!

«Ti sta sgocciolando la tazzina» mi dice lei.

Ero rimasto a fissarla con la tazzina del caffè inclinata, mi riprendo un attimo, finisco il caffè in sorso, mi ustiono la gola e cerco di vedere la mia immagine riflessa nello specchio nascosto dietro le bottiglie di Pernod e Punt e Mes.
Vedo solo la metà del mio viso, mi basta per intuire il mio aspetto ancora martoriato da ieri sera, mi sento come se camminassi su di un cornicione al decimo piano. E sono uno che soffre di vertigini.

La radio ora trasmette Midnight in Moscow di Kenny Ball. Il ritmo veloce e deciso contrasta con la mia insicurezza, ma è comunque straordinariamente in linea con il momento. Nessuna musica sarebbe più adatta ad un cambio tanto repentino di emozioni in così poco tempo, così come i cambi repentini di note del capolavoro Jazz.

Bea nota la mia sorpresa, si siede ad un tavolino e mi invita a farle compagnia.

Sono Superman con un chilo di kryptonite tra le mani, nello stomaco non ho delle farfalle ma uno sciame d’api, è questo l’effetto che Bea ha sempre avuto su di me, è un po’ come l’esplosivo C4: quello che utilizzano per demolire i grattaceli, vedi questi giganti di ferro e cemento crollare e polverizzarsi in meno di un minuto. E tu sei lì davanti alla tv e dici: «Cazzo, quel bestione è andato giù davvero…».

Sono questo adesso io, polvere.

Mi siedo in una postura un po’ goffa, credo. Io e Bea non avevamo mai chiacchierato così, in passato avevamo scambiato qualche parola, ma sempre in mezzo ad altre persone.
Adesso siamo soli, ad un tavolino, in un modo – diciamo… – intimo, o comunque in quell’intorno materiale che viene definito «privato» dalle regole della psicologia, che riconosce quattro tipi di spazi, appunto: sociale, pubblico, privato e intimo, dipende dalla distanza tra interlocutori. Noi siamo tra il secondo ed il terzo. Ottimo, direi.

Qualche metro più in là continua la diatriba calcistica tra Bob e lo zio Gaetano.

Il nonno di Bob lo ha voluto chiamare così in onore dell’anarchico Gaetano Bresci (se ve lo state chiedendo: quell’anarchico che assassinò re Umberto I nel 1900. Studio mica per niente, io). I nonni di Bob sono cresciuti e vissuti come mezzadri, avevano dentro quella rabbia di chi ha sofferto lo sfruttamento sulla propria pelle ed in comune con altri sfruttati la tendenza a idolatrare figure che nel bene e nel male si erano ribellate all’establishment.

Bea rompe il ghiaccio, comincia a parlarmi dei suoi studi, sta per concludere il quarto anno di Lingue, primo della laurea magistrale, studia inglese, francese, tedesco e giapponese.
Continua raccontando dei suoi viaggi, che sono quasi sempre vacanze-studio, riesce a farne almeno due all’anno, se le paga lavorando in una boutique di corso Buenos Aires a Milano e usufruisce della borsa di studio che ottiene da quattro anni consecutivi.

Sono quasi ipnotizzato, non è solo bella, è elegante, posata, sfoggia un modo di parlare deciso ma un tono dolce, e soprattutto per quanto mi riguarda è umana. Non so più che aggettivi usare.

La dea che ho sempre visto in lei scompare ascoltando i suoi racconti, scopro in quelle crepe che ha sogni, speranze e ambizioni, ma soprattutto anche a lei capita di sentirsi frustrata.

Penso tra me e me che il modo di percepire gli altri senza averci mai parlato privatamente spesso ci restituisce un’idea sbagliata, sbagliata almeno al 90%.

Mi rilasso e mi ritorna come per magia la parola, le racconto dell’università di Lettere moderne, facoltà che ho scelto per passione, di come sogno di diventare uno scrittore o un giornalista: il rischio di essere un disoccupato è alto, ma fino a quando posso voglio fare qualcosa che amo.

Bea è sorpresa: «Ma dai, Dado! Non l’avrei mai detto che avevi la passione per la letteratura, l’ultima volta che ti ho visto… quando sarà stato… cinque anni fa?!».
«Anche sei.»
«Dici?! Be’, comunque… insomma… eri un calciofilo sfegatato, sempre a parlare del Torino e di come era forte negli anni Settanta…»
«Eh sì, il vecchio Toro…» ho già capito dove vuole arrivare.
«Sai, ho sempre pensato che fossi un tipo appunto da bar dello sport, tutto calcio e battute sessiste, del resto ti ritrovo al Derby!»

La regola della percezione falsata vale per tutti.

Faccio una pausa alla Celentano: «Be’, vedi, in realtà il calcio mi piace ancora, ma non è più il mio rifugio, o perlomeno non più l’unico».
«Tipo? Dai, racconta.»
«Ecco, adesso amo soprattutto leggere nelle pause dallo studio, ogni tanto scrivo qualche racconto, ma…»
«Ma?»
«Ogni volta che li rileggo li modifico quasi del tutto, non ho ancora né uno stile né le idee chiare su che genere di scrittura mi piacerebbe cimentarmi, diciamo che non ho ancora né capo né coda.»

Sorride ancora in quel modo. Un calore mi pervade. Aspetto le sue parole.

Adesso che comincio a conoscerla un po’, l’effetto che mi fa è ancora più profondo, quasi viscerale.

«Tutti abbiamo dei rifugi, Dado. Io mi rifugio nei viaggi e nell’arte. Sono un’amante dell’Impressionismo, mai stanca di girare per le mostre e di scoprire nuovi particolari su ciò che ha ispirato persone come me ad esprimere le proprie emozioni dipingendo dei quadri straordinari.»

Mi giro per un secondo verso Bob, che ci sta guardando con discrezione.

«Anche io sogno di aver a che fare con i libri. Sogno di diventare una traduttrice, ma non so ancora bene quale genere di opera mi piacerebbe tradurre, credo che non mi occuperò di saggistica, ma non so bene, se ci penso vado nel panico, come vedi anche io non ho ancora terra sotto i piedi.»

Mi suona il cellulare, è un messaggio di mia mamma che mi chiede di passare dal supermercato.

Bea ne approfitta per controllare il suo e rimane qualche minuto a messaggiare.

«Era Anna, una delle mie amiche degli anni del liceo. Scusa ma non potevo non risponderle.»

Faccio mente locale, poi ad un tratto mi sento in imbarazzo.

Qualche anno fa abbiamo avuto una relazione, io e Anna, lei si è affezionata a me ed io come al solito ho chiuso. Troppa responsabilità.

«Sì, Anna… la violoncellista…» dissimulo indifferenza.
Bea mi dice che hanno un appuntamento per pranzo, fa per rimettere il telefono nella borsa. «Esatto, Anna! Te la ricordi?»
Mi alzo e pago per entrambi.

Sì, sono decisamente e piacevolmente sconvolto.

Usciamo mentre Bob e suo zio parlano del Triplete dell’Inter e della fortuna dei nerazzurri al Camp Nou durante la semifinale. Ne avranno ancora per un millennio.
Camminiamo lungo corso Vittorio Emanuele, chiacchieriamo ancora un po’ di studio e appelli.

Davanti alla Feltrinelli Bea si ferma, ha appuntamento qui con Anna.

In quell’attimo non rifletto, non penso a nulla: «Mi ha fatto molto piacere incontrarti stamattina» le dico. «Usciamo una di queste sere?»

Lei mi fissa con un mezzo sorriso per qualche secondo, credo di essere diventato rosso, mi sono buttato e per un momento la percepisco di nuovo come la Dea.

«Anche a me ha fatto piacere, dove ti piacerebbe andare?»

Boom, altra scarica di adrenalina.

«Sarà una sorpresa, vedrai, ti piacerà» non so quanta sicurezza e quanta decisione sia riuscito a raccogliere.
«Adesso sono curiosa, cena o locale con musica e quelle cose lì?»«Entrambe le cose.»«Andata!» mi stampa un bacio sulla guancia, di quelli veri… non di quelli guancia contro guancia che ti danno i parenti che vedi una volta l’anno.
Ci scambiano i numeri di telefono e ci diamo appuntamento per la sera successiva.

***

Mentre cammino verso casa sono pervaso da una nuova ondata d’eccitazione, chissà come finirà la serata, mi chiedo.
Devo stare attento a non farmi prendere dalla fretta di concludere, con cui ho fatto spesso delle figuracce. Bea merita di più, non deve sentirsi come una che voglio portare a letto e basta.
Lascerò che le cose accadano, se devono accadere.
Sento un impulso sotto la giacca, è l’ennesima vibrazione del telefono, l’ennesima notifica, forse è un like ad un post su Facebook, o forse un like ad una foto su Instagram. Oppure un messaggio su Tinder.

Ignoro il telefono e continuo a camminare: dopo l’incontro inatteso, ho solo voglia di respirare, ho solo voglia di vivere.

Arrivo sotto casa.

Mi sono dimenticato del supermercato.

Torno indietro, un’auto mi strombazza… stavo attraversando con il rosso.