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Mi fermo a te – Capitolo due

Ecco il secondo capitolo del romanzo Mi fermo a te di Graziella Deiana!

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Capitolo due

Stasera Sara è triste: l’ho vista salire le scale con il bambino penzoloni sulla parte destra. Stasera Sara ha ripensato a quel cerchio di mani tese e poi ritirate, promesse di aiuto che hanno giocato a nascondino e sono andate a nascondersi per sempre.
Stasera Sara si è messa a sedere in un angolo della cameretta, in un angolo anche lei, come me, come Anna. Tiene le gambe incrociate, incollate al pavimento freddo, guarda le stelle finte che dal proiettore si riversano su tutte le pareti. Non ci sono stelle vere in cielo questa sera, si sono andate a nascondere anche loro, insieme alle promesse e agli aiuti.
C’è una ninna nanna sconosciuta che riempie il silenzio e si mescola al respiro leggero di un bimbo che dorme e ancora non sa.
Sali, sali su da me, tieniti il bambino incollato addosso.
Sali e parliamo del tuo dolore, ti preparo una camomilla come fossi tornata a essere una bambina con sogni interi, ci soffiamo sopra insieme, ridiamo nelle nuvole di fumo bollente.
Sali e ti abbraccio, apriamo la tenda e poi la finestra, ti faccio vedere che esistono ancora le stelle.
Sali, sali su da me, pensa a un desiderio, faccio cadere una stella soltanto per la tua felicità.
Sali e ti canto una ninna nanna che ti sembrerà di conoscere da sempre, ti rimbocco le coperte, ti restituisco il tempo dei giochi e poi quello delle paure.


Oggi Anna è uscita in orario con gli occhi gonfi e rossi ma senza più lacrime.
Non ha il casco, né in testa né sottobraccio, cammina lenta, saluta Marietto con un cenno della mano e lui fa lo stesso, come se quel loro salutarsi per la prima volta fosse un’abitudine quotidiana.
Oggi Anna ha le maniche lunghe che le coprono il tatuaggio e i tagli freschi.
Rosso di forza e rosso di sangue, sono con lei, in piedi davanti allo specchio del bagno. Ci guardiamo riflessi e rabbiosi: una battaglia contro noi stessi, la vinciamo mentre la lama affonda nella carne che si oppone.
Vinciamo noi mentre le gocce cadono sul lavabo, unadue- tre, bruciano anche le battaglie vinte.
Non sei sola Anna, non tagliarti Anna.
Sali, sali su da me, ti concedo il lusso della debolezza, piangi sulla mia spalla, ti curo le ferite e poi il cuore.
Sali e ci sediamo a terra, a gambe incrociate come in un sitin, sali e ascoltiamo la stessa canzone, una cuffia ciascuno e ti convinco che quelle parole sono per te, per te soltanto.
Sali, rallenta la tua corsa, smetti di avere fretta, ricordati le preghiere e i giochi per la strada, fai una giravolta, fanne un’altra, guarda in su e torna a credere nel cielo.


– Cosa vuoi mangiare? – Me lo chiede in maniera diversa, le sue parole prepotenti mi si riversano addosso come le gocce dei temporali.
– Niente.
– Si può sapere che ti prende?
– Niente.
E niente rimane fra noi due nella mia stanza da bambino cresciuto, non sono più palline di carta e saliva, sono solo parole, parole come lame, che tagliano e recidono.
Non ho mai smesso di essere solo, il cerchio di dita puntate si è allargato intorno a me fino a occupare tutto il liceo e forse di più.
Ho la pelle acneica, come quella di Matteo; ho un principio di taglietto sull’avambraccio destro, come Anna.
Mi sono fermato: il rosso mi fa girare la testa più che stare da solo in mezzo ai cerchi.
Studio, studio tanto, ho eretto trincee con i libri ovunque, fuori e dentro di me.
Tendo mani incerte a chi mi sta seduto vicino per castigo e suo malgrado.
Devo imparare a essere uomo, ma sono orfano di insegnanti e di esempi; cerco quell’ombra che mi somiglia, forse spero che ritorni, conto anche lui sul dito medio della mia mano che non la smette di tremare. Allora adesso siamo in tre, un altro cerchio che questa volta si chiude, perfetto e per sempre.
Lei mi guarda da in fondo alla stanza, ferma immobile su una porta che non ha il coraggio di richiudere; per la prima volta, vedo l’impotenza nei suoi occhi cambiati.
Mi ha portato pane e marmellata e tanto burro, ha appoggiato il piatto sul comodino insieme a un bicchiere di vino giallo grano.
Mi sta a guardare mentre mangio e mentre bevo, sento dolce e caldo, un liquido nuovo che per la prima volta mi scorre dentro, dove sono rimasto un bambino con sole paure.
Mi gira la testa, giro intorno a lei che è il mio tutto, penso che anche mia madre è una dea, di quelle che restano e che non se ne vanno mai.
Resta mamma, andiamo ad abitare nel cortile della scuola.
Torniamo a bastarci, scacciamo il bisogno insidioso di insegnamenti che non servono.
Resta mamma, resta con me, nel centro esatto di cerchi che non fanno più paura.
Resta mamma, mangiamo la marmellata mentre cuoce e mentre bolle, pestiamo l’uva, con i piedi e sotto al sole, facciamo il vino, ancora più giallo, ubriachiamoci, inebriamoci di noi.


Marietto ha comprato una pila per il suo orologio fermo, il rumore delle lancette gli restituisce la percezione del tempo che passa inutile fino alla sua Ninin.
Ha cucinato il brodo come lo faceva lei, con tante carote sbucciate bene e le cipolle tagliate a metà.
Ha apparecchiato per due e tenuto lo sguardo sempre fisso sul piatto di Ninin rimasto pieno: un rituale più che una cena, la recita della normalità perduta, una lacrima che si mescola al brodo freddo.
Piange Marietto, non più una lacrima ma tante lacrime, chiude gli occhi e torna indietro, a ritroso con il cuore fino a quel giorno di agosto e di sole, la stringe a sé e lei profuma di lavanda e sapone; si sdraiano fra le spighe, si nascondono in quel loro nuovo e immenso amore.
– Non potresti essere più bella di così.
Le accarezza la guancia arrossita, le sposta i capelli dietro all’orecchio, la prima di infinite volte.
– Tu sei bello.
Lei lo guarda e fugge con lo sguardo, via, dove non esiste la paura di soffrire di bellezza.
Piange Marietto, sul bianco di un vestito cucito in fretta, piange su un velo che odora di Ninin e naftalina.
Appende il vestito vicino alle camicie lasciate asciugare all’aria, decide di vestirsi bene per andare da lei, si stende sul letto un’altra volta ancora, intreccia le dita sul suo cuore tenace, si concentra nella fine e nel migliore degli epiloghi.
Vive Marietto, sopravvive a Ninin un altro giorno ancora. Alzati e sali, sali su da me e ti guardo mentre mangi, me ne sto in silenzio e scrivo mentre racconti.
Fermati, ora e per sempre, anche io ho tempo e te lo dedico tutto; fermati e ricorda, fammi vedere quanto lei era bella, vai a prendere le foto che tieni sotto al cuscino e nelle tasche vicino al cuore; voglio vedere la luce degli amori ancestrali accendersi nei tuoi occhi stanchi, voglio sentire la tua voce farsi calda di
inalterate passioni, voglio guardare le tue braccia spalancarsi nel vuoto e voglio vivere in un tuo abbraccio di padre senza figli.


Lui non è già ombra, è ancora fatto di carne, lo chiamano Il bello, perché è bello vero, è alto, il più alto di tutto il paese.
Mia madre lo guarda come se non lo meritasse, giace in un’attesa perenne di proposte e di famiglia, quel giorno ha indosso un vestito che non nasconde ma mostra, si vergogna dei fianchi e del suo sorriso imperfetto.
Lui le tende una mano inaspettata, lei si alza e balla, diventa bella anche lei, per una manciata di note e di minuti. Ballano e poi fanno l’amore in un campo di erba appena tagliata, mia madre tiene gli occhi chiusi e trema dentro.
Guardano il cielo insieme, come se esistessero loro due soltanto, distesi, all’imbocco di mille strade e possibilità; lui fuma sigarette americane e forti mentre lei lo guarda e forse sente di meritarlo.
Guardano il cielo insieme, quell’unica volta e poi mai più.
Lei perde i sensi e sviene, distesa non più sull’erba ma sul lettino ostetrico di una sala parto fredda: è sola, lì e poi per sempre.
– Sento che è un maschio – lo dice piano, quasi lo sussurra, lui la guarda dall’alto, lui non sente niente.
Non c’è più il cielo sopra le loro teste, il mondo s’è fatto di cemento pesante e grigio come le nuvole dei temporali improvvisi.
Mia madre torna in quel campo, la pancia vuota di cibo e piena di me, si sdraia facendo attenzione, con i palmi delle mani tasta l’erba ricresciuta che la circonda fin quasi a farla sparire.
Mia madre non vuole sparire, duella con la vergogna e vince restando illesa.
– Ce la faremo, noi due ce la faremo – si accarezza la guancia e poi il ventre e forse l’ho sentita, quando esistevo appena ed ero già tutto quanto il suo mondo; e forse la sento anche oggi, anche se non c’è più, la sento in un sogno e in un’illusione ma a me basta, basta ancora.


Matteo ha preso trenta, è tornato a casa brandendo il libretto blu dei voti come fosse l’unica arma rimastagli. Ha incrociato Anna nell’androne, ha abbassato lo sguardo pensando a un verso che parlasse di lei e delle sue braccia guarite. Anna si è accorta di Matteo, gli ha incollato addosso uno sguardo interrogativo e curioso, ha pensato che avrebbero potuto rincontrarsi di nuovo e per davvero, in una stanza abbastanza grande, seduti ognuno nel proprio angolo di mondo.
Un appuntamento alleggerito dal peso delle aspettative, un incontro finto casuale, solo per vedere come va.
Matteo ha scritto quel verso, a penna, accanto al Simposio di Platone.
Tu, forte come una radice che spacca la terra
Tu, musa di tutti i poeti
Tu, posto dove voglio farmi stanziale
Lo ha cancellato appena, una riga troppo sottile, parole che sfidano e che restano.
Sali, parliamo di cose da uomini emotivi, beviamo rum invecchiato dodici anni, brindiamo all’emotività e agli amori possibili.
Sali, da solo o insieme ad Anna, chiamala e trascinala nel vortice dei tuoi pensieri a volte troppo strani; chiedile di essere paziente, promettile che la ricompenserai lasciandola entrare nel tuo mondo di poeti e pensatori, accarezzala con lo sguardo alto, legatela stretta al cuore come fosse solo di passaggio.
Sali e vi benedico, suggello quel vostro amore ancora privo di consapevolezza, mi vesto di bianco e assisto al vostro primo e timido bacio.


Loro sono giovani, giovani e belli uguali, hanno anelli oro giallo di campi e di sole.
Loro si sono fatti promesse guardandosi fissi e sinceri, ci credono per davvero che sarà ora e poi per sempre, si sono parlati di malattia e di morte anche senza poterne immaginare il peso e il senso.
Loro si aspettano, sotto casa e per cenare, cucinano cantando e bevono ballando, si distraggono nell’attesa di un figlio che non arriva, si convincono di potersi bastare, nonostante e comunque.
– Se non arriva, gireremo il mondo – le dice lui ridendo forte.
– Già, da Puerto Toro fino alle Isole Svalbard – risponde lei sorridendo appena, mentre dentro soffre e realizza che non vuole partire, non più, vuole solo restare, fertile e generatrice di altra vita.
Lei conta i giorni, poi le settimane, ha comprato un calendario, lo ha appeso vicino al frigo pieno di post-it e calamite; ogni mese cerchia una data, una soltanto e in quel cerchietto di penna blu ci infila tutte le sue speranze e ogni sua preghiera.
Lei è tornata a pregare, ogni sera, lui le sta vicino in silenzio, immobile e impotente.
Prega anche lui, si infila in quel cerchietto di penna tutto intero, vorrebbe bastarle, bastarle per davvero.
Salite, venite a me, vestiti di bianco e di progetti, ripetetevi quelle promesse, vi do la mia benedizione, vi invidio per la gioia degli inizi, vi sto a guardare mentre vi abbracciate dilaniati dal pensiero di perdervi senza ritrovarvi.
Salite, raccontatemi di quei viaggi che avete fatto: chiudo gli occhi e sono con voi, dentro a un tramonto a Martha’s Vineyard, nel vento che soffia sull’Haleakalā, per le vie senza nome di paesi abbandonati.
Salite, incompleti e impauriti, cerchiamo insieme altre date e nuove strade, salite e troviamo una soluzione, aspettiamo ballando, attendiamo cantando.