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Le lezioni all’università

Ecco il secondo capitolo di Fermo istante, il romanzo di Emma Formigli, in uscita a gennaio per la collana Narrativa.


Fermo istante. Capitolo tre

Le lezioni all’università erano iniziate, e Alba si trovava un po’ in difficoltà nel seguirle: la lingua le era estranea e quei professori si ostinavano a parlare il più delle volte in catalano. Altroché “Universidad Intenaciónal de Catalunya”. Il catalano per loro non era un dialetto, era una vera e propria lingua che non si limitavano a difendere a parole, lo facevano a morsi e a pugni se necessario. Alba non immaginava che la Spagna fosse un Paese così profondamente diviso. Aveva scoperto che ogni regione aveva una sua grande identità personale, che tra connazionali provenienti da lati e altitudini diverse del Paese c’era un profondo risentimento con radici nel passato. Cristina, una ragazza molto moderata e pacata, le aveva raccontato che in ogni regione la scuola era strutturata in maniera diversa: come lingua secondaria si insegnava il dialetto e la storia regionale con particolare foga. Alba ne era affascinata. Anche il suo Paese non era unito, in Italia perfino nella stessa regione si faceva grande distinzione tra città e città; l’aveva sempre visto come un problema da essere risolto, ma attraverso le bocche di quella gente intravedeva un punto di vista diverso. Quella grande diversità di tradizioni finiva col mescolarsi assieme e, tra battute sguaiate nella caffetteria, si riusciva, talvolta, a trovare un punto di riferimento comune. Chi se lo sarebbe mai immaginato che gli spagnoli fossero un popolo ancora più orgoglioso e ottuso degli italiani? Tuttavia, avevano tanto da insegnarle: alla base della loro cultura risiedeva la vita, la gente andava con calma, non faceva le corse per andare da un posto all’altro. Respiravano più tramonti e forse facevano, più volte del dovuto, ciò che non avrebbero dovuto.

All’inizio, Alba vedeva questo nodo del pensiero spagnolo come una forma di debolezza. Fino a poco tempo prima si era abituata ad andare a dormire a tarda notte perché frequentava un collegio molto rigido e stressante, non immaginava che la vita potesse correre in maniera sostanzialmente più lenta. Pensava che la gente fosse moscia e poco piena di vita, ma era l’esatto contrario. Nel fermarsi a contemplare, la gente assumeva una parvenza più umana, più equilibrata. Aveva capito che il numero di impegni in una giornata non era direttamente proporzionale alla sua completezza.

Era strano. Generalmente provava sempre tutto in maniera intensa, in questo caso, però, sentiva come d’essere staccata dal resto del corpo. Le sue gambe la facevano camminare, le sue labbra la facevano sorridere educatamente alla gente che le passava accanto, ma lei non c’era. Tanto e totalmente presa a nascondersi a sé stessa.

Non faceva mai fatica a farsi amici, la gente che aveva attorno l’ascoltava rapita da ciò che aveva da raccontare, ciò che attraverso i suoi pensieri poteva portare alla tavola, a partire dalla politica, passando per la letteratura, il cinema e le scienze.

Essendosi trovata da piccola in situazioni non particolarmente semplici, era abituata a uscire dalla sua zona di comfort e a capire la gente, carpire le loro incertezze. Le persone con lei si confidavano, cercando di farsi instradare da quella che chiamavano il “Budda cinese”, perché a volte è tanto più facile lasciar decidere a qualcun altro le proprie sorti.

A ogni modo, Alba non aveva mai avuto ben chiaro questo suo ruolo, per certe cose non aveva mai avuto grande fiducia di sé; raccontava le sue storie con paura di annoiare e infastidire la gente. Più spesso che mai si sentiva incompresa e in balia delle mani che la tiravano a destra e a manca. Dimenticava che il suo sentirsi incompresa era l’espressione del suo non conoscersi, della sua continua negazione.

In realtà non sapeva stare in gruppo, entrava in soggezione e sentendosi a disagio si ritirava nel suo angolino, per paura di dire qualche fesseria, per paura d’esser giudicata poco intelligente o poco divertente. Solo in poche occasioni lasciava trapelare il suo io, lasciandosi guardare da occhi meravigliati e affamati.

E quella era l’occasione perfetta. Infatti, pur non parlando bene lo spagnolo, non tardò a farsi amici. Era l’unica persona del corso a parlare una lingua differente, aveva dalla sua una certa dose di curiosità e tenerezza che portava la gente ad avvicinarsi per frugare in cerca di risposte a domande inespresse.

Le lezioni continuavano, Alba aveva iniziato a ingranare con lo spagnolo e già dopo un paio di settimane lo capiva perfettamente ed era in grado di esprimersi e farsi capire senza troppa difficoltà.

I corsi che seguiva andavano a rilento, aveva già fatto tutte le cose del programma quando si trovava in collegio e durante le pratiche di laboratorio si annoiava molto. Non gradiva i lavori metodici, perché non le piaceva seguire alcun tipo di regola, perciò le sembrava tutto estremamente strascicato. Erano lavoretti senza senso, odiava il professore che le diceva in continuazione di girare la pipetta in quel modo anziché nell’altro, le dava fastidio quando venivano scritte esatte quantità sulla lavagna da seguire con precisione e accuratezza. Quando lo diceva ai suoi compagni di corso loro la guardavano come se fosse stupida, non lo era, capiva perfettamente il significato delle procedure da seguire ed era eccellente nell’eseguire gli esperimenti; solo che non era una pratica fedele alle sue corde.

Ad Alba era sempre piaciuto il sapore della libertà, in tutti i sensi, anche quando questa tendeva verso l’anarchia. Tende, non porta. Ogni cosa si trova unita a un’altra, tutto si collega, il che rende impossibile l’anarchia. Un mondo anarchico non può esistere. Tutto, anche se magari non nell’apparenza, ha una sua logica intrinseca, una sua regola che gli permette d’essere. Quindi la libertà, espressa nella sua più totale pienezza, è irraggiungibile. Ad Alba piaceva la libertà, perché l’era sempre stata preclusa; la libertà nella realtà non esiste, solo il suo concetto esiste, è reale la sua eterna ricerca, che per lei era la più grande vittoria fra tutte. Il desiderio di sentirsi liberi a prescindere da ciò che ci circonda. Era proprio per questo motivo che Biomedicina non le piaceva, perché sentiva di non riuscire a esprimere sé stessa come più le sarebbe piaciuto.

I suoi compagni, non capendo, le dicevano che Biomedicina le avrebbe permesso di esprimersi una volta divenuta ricercatrice, ma Alba non riusciva a immaginare la sua vita chiusa dentro a un laboratorio che filtra l’aria e la luce, portatrici di vita. In più, prima di diventare ricercatrice sarebbero passati ben quattro anni, se tutto fosse andato bene: passare tutti gli esami, scrivere la tesi in tempo, il dottorato… Non voleva lasciar passare tutto quel tempo, specialmente per qualcosa che non era sicura le sarebbe piaciuto. Forse era colpa della sua gioventù, ma sentiva la voglia e la necessità del qui e ora. Non voleva aspettare, voleva fare qualcosa della sua vita e voleva farlo subito. Oltretutto non solo non le piaceva Biomedicina, le faceva pure paura. Paura per la velocità con cui la scienza stava progredendo in tutti i campi, portando a sconvolgenti scoperte capaci di salvare milioni di vite, in grado di far sviluppare la tecnologia in tutti i sensi. Come se la tecnologia fosse sempre “buona”. Ma fino a che punto possiamo essere certi che sarà nostra alleata per un futuro migliore? Sappiamo che le nuove tecnologie non possiedono solo pregi e possono essere anche controproducenti. Forse è ancora troppo presto per giudicare, per poterla classificare in modo chiaro. Il fatto è che fa paura far parte dello sviluppo o distruzione di dogmi su cui intere civiltà si basano, perché nel bene o nel male ci si è abituati. Quando Alba ascoltava i professori che le raccontavano, per esempio, della clonazione, le venivano i brividi. Dalla prospettiva di un medico, la clonazione appare come qualcosa di simile a una manna caduta dal cielo, perché può essere utilizzata per protesi o scopi simili, però nasconde anche un lato più oscuro. Alba immaginava già esseri bionici camminare per questo pianeta nel giro di una cinquantina d’anni. E se ci si pensa sopra un attimo, non è per nulla improbabile che ciò accada. Accecati dal desiderio di potere, dalla ricerca del sapere, perché non dovrebbero gli uomini impossessarsi di parti della scienza potenzialmente capaci di renderli ancor più potenti, superiori? Armi invincibili all’occhio, distanti da una coesione, sempre più vicine a un egocentrismo spasmodico, che viene servito su un piatto d’argento e mostrato come processo di sviluppo per un’umanità migliore e più unita; facile rigirare le cose, gli esseri umani sono nati per farlo. Ma l’evoluzione delle scienze, e in particolar modo della tecnologia, non implica anche uno sviluppo sociale, perché per farlo l’etica sociale deve camminare di pari passo con le scoperte e le innovazioni scientifiche.

Quello che più di tutto la terrorizzava era la clonazione umana, proibita dalle leggi internazionali. Ma il fatto che qualcosa sia proibito non lo rende meno reale, nonostante gli accordi di Monaco, Hitler non si fece scrupoli a portare il mondo alla Seconda guerra mondiale. Qualcuno, da qualche parte, stava certamente cercando una risposta all’esatto processo di clonazione umana. Prima o poi un esito positivo sarebbe stato raggiunto. E allora che significato avrebbe assunto l’essere umano? Pur non essendo credente, Alba intuiva che questo passo avrebbe portato alla scissione dei dogmi morali e allora la domanda tornava nuovamente al dove ci stesse portando tutto questo. Un Occidente dove tutto è lecito, perché niente lo è nella realtà. Questo sbandieramento di liberalismo, dilagante in tutto, nasconde un senso di disagio ormai preponderatamene diffuso.

La sera, quando Alba finiva le lezioni all’università, tornava a casa alle otto, si metteva a cucinare (cosa che per altro non era capace di fare) e passava la serata da sola. Odiava usare il computer, vedere sé stessa o qualcun altro di fronte a lei con un telefono in mano, quindi solitamente passava il suo tempo leggendo. Ma quelli erano i momenti in cui si sentiva veramente sola, vittima delle sue emozioni. In Inghilterra, perlomeno, conviveva con altre ragazze e dietro al loro dormitorio, a pochi passi, c’era quello dei maschi. Quindi c’era sempre qualcuno con cui confrontarsi, parlare, far festa… e poi i compiti e le cose da studiare erano sempre molte e non lasciavano molto tempo libero per pensare, per sentirsi soli. Qui, invece, si era ritrovata con tutte le materie già pronte e finite, non sapeva come impiegare il suo tempo. Che ironia: ai tempi del collegio aveva sempre sopportato mal volentieri il costante rumore dei passi davanti alla sua porta. Adesso quei passi, quelle risate, quegli strilli imbecilli a tarda notte le mancavano. Avrebbe trovato confortante poter uscire dalla sua camera avendo la certezza di potersi confrontare e confortare con qualcuno.

In un quartiere un po’ underground vicino alla Rambla, El Raval, dove non era per niente sicuro andare di notte perché si aggiravano piccole bande di strada, Alba aveva scovato alcuni negozi vintage. Ci andava con un’altra ragazza del suo corso, Nicole. Era divertente, si provavano vestiti interessanti e colorati, poi andavano in giro per le piccole stradine del Barrio Gotico, con gli occhi della gente che le scrutavano con aria fra il divertito, il perplesso e l’infastidito.

Non l’era mai piaciuto lo shopping, ma era curioso entrare in tutti quei negozi vivaci, pieni di vestiti e oggetti che avevano già avuto una storia, che si dissociavano da ciò che indossavano le altre persone tutte uguali e anonime per le strade. Sia ad Alba che a Nicole piaceva mostrare parte del loro carattere attraverso il loro vestiario, per loro era un modo per eclissarsi dal resto.

In più, Nicole era una ragazza piena di qualità: non era brava all’università, ma era una persona intelligente, anche lei trovatasi fra le file dei banchi di Biomedicina un po’ per caso, visto che non era riuscita a entrare a Medicina.

Nicole era estremamente vispa, piena di ribellione adolescenziale, e aveva trovato in Alba una compagna fidata sia in università che fuori. Nicole aveva le orecchie ricoperte da orecchini multiformi e variopinti; ad Alba piacevano molto quegli oggettini luccicanti che le pendevano giù, verso terra. Un pomeriggio, dopo l’università, Nicole la portò in un posto dove facevano piercing e orecchini, l’aveva cercato su internet, il più vicino all’università possibile. Il negozio, con un’insegna stile Texas, “Lola’s”, si trovava alla fine di un vicolo cieco, la stradina colma di bidoni della spazzatura. La porta consisteva in una specie di tenda a cortina giallo sporco, di quelle che si vedono ogni tanto quando si va dal macellaio. Nel negozio c’erano banchi di fumo che si muovevano a loro piacimento, le piastrelle sulle pareti erano passate dal bianco a un tetro grigio che puntava a diventare nero e su quelle piastrelle erano appiccicate immagini raccapriccianti di unghie incarnite, di tutti i colori tranne quelli che sarebbero dovuti apparire normali. Alba e Nicole si guardarono con l’idea di uscire subito da quel “Lola’s” ma, prima che potessero farlo, arrivò una donna interamente vestita di bianco, che iniziò a parlare in catalano stretto. Aveva tutti i denti marci e le punte delle dita giallastre, mangiate dalla nicotina. Alba non capiva niente di ciò che quella donna stava dicendo, ma sembrava avere una parvenza rassicurante. Nicole guardava Alba come per chiederle la sua opinione, poi si voltò verso la signora in bianco, Lola, e spiegò che Alba si sarebbe voluta fare un secondo buco. Alba, avendo capito le parole dell’amica, si ritrovò evidentemente interdetta e impaurita di prendersi qualche infezione; iniziò a scuotere il capo. Sarebbe voluta uscire di corsa da quel negozio, ma aveva raramente compiuto un gesto anche leggermente spericolato. Voleva dimostrare a sé stessa di poter essere spontanea, così decise di farsi quel buco. Per qualche motivo, sembra sempre che l’essere spericolato e spontaneo vadano a braccetto, come due rette parallele che passano una accanto all’altra, senza mai veramente sfiorarsi.

Dopo che Lola le assicurò che anche le bambine di pochi mesi si facevano i buchi e che a nessuna le si era infettato l’orecchio, Alba si sedette su una poltrona nera sdrucita con pezzi di gommapiuma gialla che spuntavano dalle cuciture, che scoprì sorprendentemente comoda. Il fatto che Lola avesse sentito necessario dirle che a nessuno si fossero infettate le orecchie non faceva presagire niente di buono. Lola l’abbracciò e dopo, sorridendole, iniziò a disinfettarle il lobo destro. Nicole era china su di lei e le teneva una mano, soffocando una risata nei suoi capelli. Quando la donna in bianco tirò fuori la pistola per fare i buchi (chissà quando era stata pulita l’ultima volta), Alba abbassò la testa in uno scatto, e quella che alla fine si ritrovò con l’ennesimo buco all’orecchio fu Nicole, che rimase ferma sul bracciolo della poltrona con gli occhi aperti e increduli. Nicole si presentò all’università con l’orecchio arrossato e tumefatto per una settimana, ma ridevano dell’avventura appena fatta.