Campagna elettorale: largo al fundraising
Per la prima volta senza finanziamento pubblico e senza rimborsi, le elezioni politiche del 4 marzo segnano il passaggio finale verso una politica privatizzata
Con quali soldi i partiti stanno affrontando questa campagna elettorale? Da quest’anno, in base alla riforma del 2013, anche i rimborsi elettorali diretti sono definitivamente estinti. Sopravvivono solo i contributi indiretti del due per mille Irpef.
Come pagare quindi le agenzie di comunicazione, gli spin doctors, i sondaggisti, gli addetti all’immagine, i volantini, i manifesti, i convegni, insomma tutta la macchina “pubblicitaria” di una campagna? Le casse dei partiti sono desolatamente vuote. Il due per mille, che doveva sostituire i rimborsi diretti, ha avuto un avvio stentato e ha toccato quota 12 milioni di euro versati dai cittadini, appena il 2,7% dei contribuenti.
Il fundraising in politica, ovvero come convincere i privati a finanziare i partiti con le donazioni
Con il saggio Partiti «Low Cost»?, Simona Biancu e Alberto Cuttica (consulenti di associazioni non profit e aziende, membri dell’Associazione Italiana Fundraiser) ci introducono al fundraising in politica e propongono il loro decalogo per partiti finanziati dal basso, capaci di affrontare la sfida della sostenibilità e della trasparenza. Questo libro ci mostra la situazione politica italiana attuale, identificando nel binomio fundraising-politica la via giusta per un futuro all’insegna del low cost.
«Da qualche tempo si parla con maggiore frequenza di fundraising per la politica, o meglio per i partiti e i movimenti politici: al pari delle altre organizzazioni del terzo settore, anche quelle politiche si trovano di fronte a nuove sfide, alla necessità di cambiare faccia e approccio per ricostruire il rapporto con i propri stakeholder, ovvero i cittadini. Guardiamo tutti con grande interesse e curiosità al modo in cui il mondo della politica saprà interpretare il fundraising per quello che è: la ragione del successo o dell’insuccesso è ciò che sta a monte della raccolta di fondi. Una richiesta di sostegno è solo l’ultimo passo di un cammino molto più lungo». Spiega nella prefazione al volume Valerio Melandri, professore ordinario di Strategie di fundraising presso l’Università degli Studi di Bologna, direttore del Master in fundraising dell’Università degli Studi di Bologna, Visiting Professor presso Columbia University New York.
Partiti «Low Cost»? Dieci consigli per una politica più responsabile e trasparente si pone l’obiettivo di chiarire ai non addetti ai lavori in cosa consiste il fundraising politico e, contemporaneamente, fornire alle organizzazioni politiche suggerimenti pratici e indicazioni operative sull’argomento.
Di seguito, un estratto dal primo capitolo del saggio.
«Di cosa parliamo quando parliamo di fundraising»
Il punto di partenza è una domanda, semplice e diretta, alla quale ci capita spesso di rispondere citando, in modo volutamente irriverente e “fuori luogo”, Raymond Carver. Lo scrittore scelse un titolo come What we talk about when we talk about love per una delle sue raccolte di racconti: fotografie minimaliste della più banale quotidianità, che vogliono essere anche la dimostrazione di quanto sia difficile (a volte inutile) definire astrattamente un concetto ampio e non facilmente circoscrivibile… nel suo caso l’amore.
Abbandonando subito lo spunto, eccessivo e scomodo, dobbiamo comunque riconoscere la difficoltà di definire in modo univoco il concetto, quindi l’attività, del fundraising.
Oggi in Italia se ne parla, sempre di più. Molto più di quanto non accadesse solo pochi anni fa. Lo si fa a volte correttamente, a volte meno. È il sintomo di un cammino di conoscenza e consapevolezza che nel nostro Paese non è ancora compiuto quanto in altri contesti geografici, socio-economici e culturali, ma anche dell’oggettiva scarsa semplicità di inquadramento di un termine che può prestarsi facilmente a utilizzi impropri.
Proviamo a interpretare il concetto, o a darne una chiave di lettura, in queste poche righe.
Innanzitutto sgombriamo il campo da un equivoco ricorrente e definiamo i confini: quando parliamo di fundraising facciamo riferimento prioritariamente al mondo del cosiddetto terzo settore, il complesso universo del non profit. È questo l’ambito di riferimento originario della disciplina, variamente composto da tutte le realtà che non sono Stato e nemmeno mercato, ma soggetti privati finalizzati a produrre, non per profitto, servizi a favore della collettività. Vale la pena evidenziare che nel tempo il limite concettuale si è ampliato, venendo gradualmente a includere anche il primo settore, cioè lo Stato e le sue articolazioni. Ma il confine invalicabile rimane “lo scopo di lucro”: in estrema sintesi, il fundraising è un’attività realizzabile da chi non è soggetto profit.
Delimitato il campo di gioco (e definiti anche chi sono i giocatori), veniamo a mettere meglio a fuoco l’oggetto della nostra riflessione.
È piuttosto ovvio che stiamo parlando di raccolta di fondi. In realtà, proprio da qui derivano i potenziali o reali equivoci. È interessante comunque avere presente la gamma di significati del verbo inglese to raise: non solo raccogliere, ma anche alzare, coltivare. Significati che danno sfumature più complesse al termine: teniamole presenti, saranno utili più avanti. Ma non possiamo fermarci a questo stadio di definizione, con una traduzione letterale che, altrimenti, escluderebbe una gamma troppo ampia di attività, limitandone la portata al solo reperimento di risorse finanziarie. Scendiamo, dunque, a un livello più profondo.
Definizioni
In letteratura, nella discussione professionale e in quella comune sono molte le definizioni che, a seconda dei casi, sottolineano aspetti e implicazioni diverse del fundraising. Non potendo inquadrarle, nella maggior parte dei casi, come giuste o sbagliate, ai nostri fini è utile considerare quelle che più si avvicinano al nostro bersaglio.
È opinione diffusa che la definizione più efficace continui ad essere quella data da Henry A. Rosso, fondatore della Fundraising School dell’Indiana State University, a ragione considerato uno dei padri del fundraising come disciplina scientificamente codificata. In essa il fundraising è definito come «the gentle art of teaching people the joy of giving». Poche parole in grado di dipingere icasticamente l’universo di valori, tecniche, discipline sottese all’espressione fundraising.
Apparentemente in questa semplice affermazione sembrano perdersi alcuni dei tratti caratteristici del fundraising. Li richiameremo in seguito più volte, ma in realtà anche questi emergono a una lettura attenta dei termini utilizzati.
Si tratta, ed è a nostro avviso il suo plus, di una delle poche definizioni che, nella sua brillante e accattivante brevità, lascia in secondo piano in modo piuttosto netto l’aspetto più ovvio, forse atteso (il reperimento di fondi, le tecniche a ciò finalizzate, ecc.) e accende il riflettore su un concetto chiave e su un piano diverso: il rapporto, maieutico e di condivisione, che si instaura (o si dovrebbe instaurare) con le persone che donano, doneranno, potrebbero donare. Se ne desume allora che il fundraising è questo: la costruzione di una relazione con il donatore, potenziale o attuale.
Una relazione basata sul rispetto, sulla trasmissione di elementi valoriali, sulla loro condivisione fra chi sta cercando e chi è potenzialmente disponibile a donare fondi (e non solo).
L’aspetto materiale, la donazione, è ovviamente fondamentale quando parliamo di raccolta fondi, ma deve essere ricondotto ad aspetto consequenziale: prima viene tutto ciò che mette il donatore nelle condizioni e nello stato d’animo di offrire e mantenere il suo sostegno alla causa che gli viene rappresentata e che sceglie di sposare. Nella definizione che abbiamo riportato, i termini usati sono assolutamente non casuali: c’è una pienezza semantica utilissima per fissare con semplicità e avere sempre a portata di mano (e mente) i concetti chiave.
Riprendiamo le parole di Rosso e sezioniamole, per estrarne tutto il contenuto.
Parliamo di «gentle art»: l’aggettivo illumina molto bene la natura dell’attività che pone in essere chi fa o intende fare fundraising. Non si fa riferimento meramente a un modo, una tecnica, uno strumento, ma a un’attività (anzi, un’arte) “nobile”, che si fonda sulla predisposizione a una relazione profonda, sincera e cordiale con l’interlocutore che viene coinvolto. Non abbiamo quindi a che fare con un’azione commerciale o, per altri versi, basata sulla persuasione di terzi a fare qualcosa. Stiamo maneggiando una disciplina basata sulla qualità e profondità del rapporto che si instaura tra l’organizzazione – fundraiser e il donatore potenziale.
È la nobile arte di insegnare: chi si occupa di fundraising, come si diceva poco sopra, non chiede, pur garbatamente, qualcosa in cambio di qualcos’altro, cioè una controprestazione in cambio di un sostegno – si configurerebbe, in questo caso, semplicemente un rapporto di natura sinallagmatica, decisamente lontano all’oggetto della nostra attenzione. L’organizzazione mette il suo interlocutore nelle condizioni di condividere qualcosa. Compie quindi un’azione che ha un enorme valore (e responsabilità) per sé e per il soggetto esterno che viene coinvolto: la «trasmissione» di una opportunità, il modo di apprezzare e trarre arricchimento reciproco da qualcosa.
Questo qualcosa è la joy of giving. Chi sta facendo fundraising sta quindi a sua volta facendo un dono, che consiste nel condividere con il potenziale sostenitore la gioia del dono come atto inclusivo e relazionale in grado di attuare «una vera e propria formazione del futuro socialmente desiderabile». (Vello e Reolon, 2014, p. 88)
In questo passaggio si compie uno scarto logico di grande rilevanza, fondamentale nell’attività di fundraising: il donare è rappresentato come fonte di soddisfazione e benessere per il donatore, oltre e prima ancora che per chi riceve il dono.
Si comprenderà a questo punto quanto sia più complesso (o per meglio dire coinvolgente e ricco di valenze) il concetto di fundraising, rispetto all’utilizzo superficiale che quotidianamente si fa del termine.
Ma torniamo alle definizioni. A quella da cui siamo partiti va ascritto il merito di avere messo in luce in modo straordinario alcuni principi fondamentali della disciplina, non sempre immediatamente percepibili (anzi spesso messi in secondo piano nella pratica). Ci sono ovviamente altre descrizioni più tecniche, dello stesso autore e di altri esperti, che evidenziano fattori altrettanto importanti e devono essere considerate per comprendere a pieno ciò di cui ci accingiamo a trattare.
Vogliamo quindi completare, pur nella voluta brevità, questa illustrazione generale e propedeutica del concetto, dando evidenza di queste ulteriori implicazioni. Lo facciamo riprendendo la definizione che viene da Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli e Raffaella Milano in un utile testo di riferimento: «il fundraising è un’attività strategica di reperimento di risorse finanziarie volta a garantire la sostenibilità, nel tempo, di una causa sociale e dell’organizzazione che la persegue, e a promuover-ne lo sviluppo costante, affermando la “missione” dell’organizzazione stessa verso una molteplicità di interlocutori affinché investano risorse per raggiungere benefici sociali» (Ambrogetti, Coen Cagli e Milano, 1998).
Anche in questo caso l’utilizzo puntuale dei termini è di grande aiuto alla comprensione degli aspetti che ci preme mettere in evidenza. Ci spostiamo in questo caso sul versante del concetto in qualche modo più famigliare: il reperimento di risorse finanziarie. È però necessario porre attenzione ai dettagli: il fundraising non è (non deve essere) un’attività occasionale, episodica, da utilizzare nell’urgenza di una specifica e limitata necessità.
In questo senso può essere definito come «strategico»: lo è per la necessità che ha di inserirsi a pieno titolo nella programmazione strutturale e continuativa dell’organizzazione che intende portare avanti questa attività. Lo è perché si tratta di un mezzo per dare sostenibilità nel tempo e sviluppo costante all’organizzazione e alla sua «causa», quale essa sia.
Questo passa, evidentemente, attraverso processi di pianificazione e gestione che prevedano la definizione di obiettivi programmatici e di raccolta fondi a lungo, medio e breve termine, l’individuazione di metodi operativi adeguati e differenziati (non esiste un solo mezzo di fundraising, ma differenti strumenti adeguati ai mercati individuati per le singole campagne), un monitoraggio periodico dei risultati che consenta una riprogrammazione ciclica del fundraising.
Dunque, tornando al punto da cui siamo partiti, è evidente che un approccio serio e costruttivo al fundraising implica la presa di coscienza del fatto che non parliamo di «raccolta fondi e basta», ma di un’attività che, tra gli altri aspetti:
– comprende una notevole e preziosa ricchezza di sfumature che vanno ben oltre la strumentalità di un’azione di reperimento di risorse per coinvolgere, invece, l’ampio tema della responsabilità condivisa, dell’esperienza emozionale, della «cura» nei confronti delle varie cause;
– implica la presenza di competenze diverse (relazionali, gestionali, di programmazione metodologica, ecc.);
– consente all’organizzazione e ai suoi operatori, se ben utilizzata, di andare oltre l’esercizio dell’arte della gestione dell’ordinario e dell’emergenza, nell’ottica di una visione di più lungo periodo.
S. Biancu, A. Cuttica, Partiti «Low Cost»?, Edizioni Epoké, 2014, pp. 13-21