Itaka – Capitolo Tre
Ecco il terzo capitolo del romanzo Itaka di Maria Enza Bertilone!
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Capitolo Tre – Isole
Barba nera e incolta e inconfondibile odore di tabacco, questo era il suo bigliettino da visita, non che gliene importasse, Antonio infatti non aveva molti amici, non gli piaceva la gente, amava stare seduto davanti a un bicchiere di vino e addormentarsi davanti alla televisione. Era diffidente, ogni giorno andava a lavoro con la stessa espressione apatica e riusciva a reggere otto ore senza dire una sola parola. Si era abituato al silenzio e al cibo da asporto da quattro soldi che gli aveva provocato non pochi problemi al fegato.
Ogni notte sognava una ragazza bruna, la stessa con cui tornava a casa da scuola, e nel suo giorno libero guidava tutto sudato verso la via industriale, grigia di edifici diHitleriana memoria, dal quale ne spiccava uno rosa. Alla porta era sempre Katarina ad aprire con il suo boa di piume di struzzo e la giarrettiera leopardata.
«tututututututu, la persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile».
«Antò, amore di mammà, sono giorni che ti cerco».
Lei non sapeva del suo silenzio o di come a lavoro lo prendessero in giro per il suo modo distratto e un poco imbranato di vestire e muoversi, lei non sapeva delle cene sul divano, della pila di piatti di lavare, e della montagna di spazzatura da buttare, non sapeva di quell’enorme edificio rosa che visitava ogni lunedì e non sapeva di Katarina che gli insegnava il bondage.
Antonio a sua madre raccontava solo dello stipendio e della precisione burocratica, niente a che vedere con le attese italiane, le parlava della cornice, la cornice di quella perfetta cartolina che ha
portato tutti i migranti ad espatriare: “ORDINE, STIPENDIO, ASSISTENZIALISMO E UNA SANA DOSE
DI DISPERAZIONE”. A sua madre raccontava quello che lei voleva ascoltare, era già stato troppo doloroso per lei vedere partire il suo unico figlio, allontanarsi lentamente dietro i canneti.
«Caliti juncu, ca passa la china» aveva pensato. Antonio viveva nella sua isola, non parlava con nessuno, esclusa Katarina al bordello ed era diventato un cyberarbeiter dedito ai suoi compiti e al riposo, esclusi questi due aspetti rimaneva l’attesa.
Ich warte.
E no, non aspettava le due settimane di ferie per gongolarsi in un villaggio turistico o in un atollo tropicale, Antonio come ogni espatriato, viveva tutto l’anno aspettando di trascorrere qualche giorno a casa.
Straniero, dal latino externus, fuori di. Straniero, fuori di sé. Che poi gli capitava, una volta tornato, di sentirsi uno straniero persino con se stesso. Una volta, si era ritrovato al bar con i soliti amici di sempre, quelli con cui aveva fatto di tutto da ragazzo, quelli che ti capiscono con uno sguardo, e si era accorto che le cose che raccontavano non le riconosceva più, che non riusciva a ridere alle loro battute, che si sentiva estraneo persino con loro, persino con sè stesso. Quella vita da eremita in una casa al quarto piano di un palazzo popolare tedesco, quella vita robotica, casa – lavoro- riposo-lavoro, lo aveva escluso non solo dal mondo, ma anche dalla sua anima. Antonio non si riconosceva più, era come se il posto in cui vivesse gli avesse strappato via radici e identità. Ma al bar aveva continuato a ridacchiare, fumando l’ennesima sigaretta rullata e tracannando il suo mezzo whisky. Dopotutto l’atmosfera lì era diversa, il crepuscolo e il chiacchiericcio romano per strada gli davano un eco di speranza.
Antonio era dappertutto e in nessun luogo, era diventato un fantasma imbranato che mangiava carbonara e cotolette ma che non si saziava, no non riusciva a dissetare la sua anima, perché quella correva, correva e stava sempre fuori di lui.