Parmina racconta…
Dal libro 12 luglio 1520
Me ciami Parmina, Parmina Gatte e sun de Cuquelo. Che cad, us mora dar cad in sta stansa indache da tanti dì a stuma cinqu don. Quanti dì… quanti rat e paneton… in mes a sta paja. Maria, Bianca e Battistina i sun disperà, incoi u tuca a lur. Mi e Teodora a savima ancura no e spiciuma[1]… Non so quanto tempo è passato da quando siamo qui dentro, in questa cantina delle carceri del Vescovado. Ogni giorno un filo di luce dalla grata segnala che viene giorno e poi ci accorgiamo che è mezzodì perché qui il caldo diventa “soffoco” e al pomeriggio ci sembra di morire, ma quando la luce cala e si avvicina la notte è ancora peggio, nel buio l’angoscia diventa insostenibile e pensiamo a casa, ai nostri uomini e ai nostri bambini. Mica abbiamo paura del buio, siamo donne coraggiose che nel buio camminano come se avessero “occhi di gatto”, è la malinconia, è l’incertezza che nel buio ci tormentano insieme a topi e scarafaggi.
Ieri Giacomo il carceriere, quando ci ha portato la solita “brodaglia”, ci ha buttato lì: Ar tre pù giun adman vers sira i van a fog![2]
Abbiamo capito, Maria, Bianca e Battistina domani avranno il loro supplizio, ma io credo che toccherà anche a me e a Teodora, stessa sentenza, stesso supplizio.
Ora sta albeggiando, entra un filino di luce azzurognola che ci permette di guardarci in volto. È uno spettacolo spettrale, cinque volti sporchi rigati dalle lagrime che si sono scavate i loro rigagnoli tra la polvere. Questa notte abbiamo pianto tutte insieme, riso tutte insieme, pregato no, perché Lui ci ha abbandonate e come Gésu Crist ci manda alla forca.
Abbiamo raccontato dei giorni belli, nei boschi, libere, per funsi e castegne e di qualche bevutina con del vino fregato nelle cascine (ti puoi immaginare che pirletta aspra il vino di un posto che si chiama Malvino). Poi sedute sotto una pianta si parlava e si rideva da pisciarsi addosso dal ridere, mettendo in burla gli uomini, quelli che avevamo sposato e quelli che capitavano… che a volte “volevi anche tu” e a volte “voleva lui solo”… e allora non era tanto bello. E anche allora dal ridere al piangere era una cosa normale perché poi a qualcuna venivano in mente “le botte” (quante ce ne siamo prese) a qualcuna veniva in mente quel fiulin che le era morto tra le braccia, perché mi al tacheva a la teta ma la teta la dava aqua[3]. Così abbiamo fatto anche stanotte e poi una a una, stracche e sudate, siam crollate nel sonno fino a quando un urlo di Battistina «No, a sun no na stria, l’è mja vero!»[4] ci ha svegliato e abbiamo visto la pallida luce. Maria è la più arrabbiata e scatenata: «I voren vardà ra stria, ra masca… e mi gla farò veg, ag farò ciapà una spavent chi in drumiran pu ra noch!»[5]. Mentre parla dilata gli occhi, si produce in smorfie che le deformano il viso, consunto ed emaciato, mostra le gengive e schiuma con la bocca.
Bianca l’è bela e imbambulà, le hanno già tolto la vita, non ha più espressioni, giace come una bigotta di stracci sul pagliericcio. Non parla, non piange, non segue quello che accade. Solo l’occhio acquoso segnala la sua disperazione che resta lì sopita sotto i suoi stracci.
Battistina non si arrende, non ci vuole credere, spera ancora di salvarsi, di convincere il vicario di aver confessato solo sotto tortura… noi quattro la guardiamo con compassione, noi non ci crediamo.
All’improvviso mentre la luce è diventata più intensa le campane dell’oratorio di Santa Maria si mettono a suonare e suonano a distesa e non smettono. La nostra cella è proprio sotto e questo scampanio così forte e continuato ci rimbomba nella testa. Non è un buon segnale… è il segno. Avvisano i paesi dintorno che oggi è il giorno in cui si libereranno delle “maledette strie”. Il suono continua, ci tappiamo disperatamente le orecchie, mentre le lagrime scendono senza comando, senza urlare (c’è già troppo frastuono). Chissà quanto durerà questo supplizio, la tortura è brutta, è tremenda ma sai che deve finire, questo scampanio è la peggior tortura. Immaginate di sentir “suonar da morto” per la vostra morte mentre siete ancora vivi. Al rintocco delle campane dell’oratorio rispondono quelle dei paesi vicini, sui vari cucchi, anche su quello di Cuquello, dove tutti sanno che oggi tre di noi saranno messe al rogo. I nomi si sanno, sono fuori nella grida del vicario del Vescovo Antonio Ricci, almeno i miei sapranno che non tocca ancora a me.
Di colpo le campane si fermano, ma non cala il silenzio, perché incominciano ad arrivare le voci delle persone accorse in giro per il paese. Ci deve essere un commercio della miseria proprio qui davanti, vicino alla torre del Palazzo del Vescovado e subito di fianco nella casa nuova degli Schiavi che tutti chiamano “casa dell’Inquisizione” perché sotto l’androne appendono le grida del vicario.
C’è un fermento per le strade, si sentono voci che parlano di cuocere tante pagnotte in forno che stasera ci sarà un mucchio di gente, un altro grida che bisogna liberare il passaggio togliendo le boasse[6] che tutte le tonache strusando per tera si imbartusano[7]. Dai pollai vicini starnazzamenti e gorgoglii ci fanno capire che qualche galletto o qualche anitra stanno per rimetterci il collo. E in tutta sta confusione cosa mi viene in mente «Che fam, a mor ad fam. Quanta fam, mi che era un dunon, grand e gros che tuti i masc im curiva adrera, perché agaviva un bel didrè e dui bei titon!»[8]
Adesso sono smagrita, sono afflosciata, le tette pendono vuote sulla pancia, l’unica cosa che resiste sono le cosce che sono ancora belle piene. Tutte siamo cambiate, magari non eravamo delle bellezze, ma sane e robuste sì, robuste come uomini e coraggiose come uomini.
Qui dentro siamo altre, imbruttite, sporche e disperate nei nostri quattro cenci pulciosi zuppi di sudore, di orina e di sangue mestruale. Solo a Teodora le “regole” sono cessate ma lei era già così magra che qua dentro è ritornata una bambina, sembra che abbia dieci anni, non ha più petto, non è più donna. Noi altre quattro non abbiamo avuto questa fortuna e ci siamo tenute il nostro mal di pancia, come non bastasse tutto il resto.
E dire che un tempo, nel limite, eravamo anche donne allegre, ci trovavamo, ci aiutavamo, che era duro sopravvivere in una terra avara, con i figli da crescere, i mariti sempre furibondi, le tasse del Vescovo che ci toglievano quel poco del nostro lavoro. Ci aiutavamo, qualche volta, sgranfignando qualche cosa da mangiare o da bere, mica era peccato… era un peccato non mangiare e bere, quando si metteva le mani su qualcosa di buono. E allora di nascosto andavamo in quella casetta nei boschi. Una stanza col camino di un amico di Bianca e lì ci facevamo qualche “mangiata”, con la compagnia di qualche tipo che aveva portato la lepre e che, fosse come fosse, ci era subito simpatico.
Perché quando hai fame, una fame che ti morde lo stomaco, che ti porta via i pensieri, che non sogni altro che masticar qualcosa, anche poco gradevole al palato, come le amare focaccine fatte con la farina di ghiande che ti legano tutti i denti, venderesti davvero l’anima al diavolo.
E se poi il diavolo ti si presenta davanti con un gran barbone, un archibugio da rota appeso alla spalla e un bel legorato[9] tenuto per le orecchie che come lo vedi senti già il profumo dell’arrosto con il timo e la maggiorana delle nostre selve…beh non gli vendi l’anima, che quello della tua anima se ne frega, ma tutto il resto sì.
Così di notte, a volte, si era in giro incuranti dei divieti delle grida del Vescovo e capitava di poter mettere le mani su qualcosa da brottare[10] e magari su qualche avanzo da portare a casa, che domani con le ossa ci faccio una buona mnestra[11] per tutta la famiglia.
Della compagnia ero la capa, loro adesso dicono la magistra[12], quella che istruiva le altre per farle diventare delle strie. Bella responsabilità mi danno, quasi quasi ne sono orgogliosa, se non fosse che per quello sono chiusa qua dentro.
Ero solo la più vecchia, non vecchia vecchia, sono loro che sono più giovani, ed ero bona a fa nas i fiulin[13] e sapevo come curar il mal di pancia con quell’erba che trovavo nei boschi o far calar la freve[14] facendo bollire la corteccia di salice. Per questo conoscevo tante donne che già le loro madri venivano dalla mia di madre per lo stesso motivo e io da lei avevo imparato facendo nascere, io che ero la più grande, i miei fratelli e sorelle mentre lei con le doglie mi diceva cosa fare.
Per qualcuna di ste done, giovani, che magari non avevano più la mama, diventavo quella a cui confidarsi, parlare dei tanti guai, magari anche un po’ ridendo, perché noi femmine si è così da un momento all’altro: o si piange o si ride. Così ho conosciuto “ste povere criste”, donne come me, solo ancora ingenue, fanciulle, anche se già con i bambini attaccati alla gonna. A qualcuno non è piaciuto come eravamo amiche, come scappavamo dalle abitudini degli altri per trovarci tra di noi, per aiutarci l’una con l’altra che ce ne avevamo tanto di bisogno.
Ed è venuto il giorno che una serie di guai, bambini ammalati e qualcuno che moriva, qualche vecchia che perdeva il senno perché malada che sembrava striata, un brutta tempestata in loci Frugarolli[15], come dicono loro, o un tempuralon a Friarò[16] come diciamo noi, fecero pensare alla presenza di strie che provocavano “sti danni” coi loro incantesimi.
Le strie siamo noi. Per tutti ormai è così, non c’è nessuno che non ci creda. Qualche dubbio deve essere venuto anche ai nostri familiari che non ci vengono a trovare e ci lasciano qua in questa merda, anche se magari di nascosto son preoccupati e sperano che qualcuna la lasciano andare.
Io mi sono fatta la fama della tremenda, della caporiona perché non ho confessato. Mi hanno interrogata con mille domande sulla mia vita, domande sceme, ma io senza alterarmi ho sempre risposto «Signornò, se sbaglia, mi non ho mai fat una roba simile![17]». Mi han anche torturata, col “curlo”[18], sei tratti di corda, appesa su come un cappone il giorno della festa, che ogni tiro che davan mi sembrava che il cervello mi dovesse uscir dalle orecchie, dal naso e dalla bocca dal gran male che sentivo. Una roba che non si può descrivere, le fitte in tutte le parti del corpo perché le ossa si slogavano e quando ti tiravano giù sembravi una marionetta rotta.
Eppure anche allora non gliela ho data la soddisfazione. Scarmigliata, esausta, ho aspettato che il barbè[19] mi rimettesse le ossa a posto, che ogni movimento sentivo un dolore che solo il “trac”, tremendo rumore, mi distraeva dalla voglia di gridare.
Per ora non ho parlato, per ora, e nemmeno Teodora. Queste povere tre gli han fatto dire qualsiasi cosa, di diavoli, di barloti[20] (barilotti pieni di una mistura di vino e sangue di bambini), di bacchette unte col grasso dei ninin[21] che uccidevamo per far gli unguenti. E degli striamenti, delle tempeste, delle ostie seppellite nel letame, della croce calpestata coi piedi e tante altre storie deliranti a cui hanno detto di sì, perché non hanno retto alla tortura e volevano che tutta sta storia finisse.
Poverine, i sun giun[22], ora sono qui, ognuna col suo carattere e le sue reazioni, quella arrabbiata che sembra davvero una stria tanto è furibonda, quella svuotata e senza speranza, quella che ancora non ci vuole credere.
Passa il tempo, con tutto sto bordello che viene da fuori, ma a un certo punto piano piano, mezzodì l’è passà da un bel po’, i rumori si affievoliscono, le voci si allontanano; viene quasi il silenzio.
Il silenzio di un pomeriggio d’estate quando la gente si butta dov’è anche sotto una pianta e prende una pisorgna[23] che bisogna dormire. Saranno quasi tutti a ronfare, chi in casa, chi all’ombra o sotto un portico.
Solo qui non si dorme. E si parla anche poco. Dopo la notte passata a ricordare, raccontando, ora non si sa cosa dire. Ognuna di noi ha paura di dire qualcosa che possa spiacere a un’altra e allora taciamo. Taciamo e sudiamo, ve l’ho detto che qui sotto al pomeriggio si muore.
C’è anche poca acqua, quella poca è un piscio sporco su cui volano le mosche, non come quella bella fresca della fontana di Cuquello.
Stiamo ognuna per conto nostro, Maria si gratta la testa per cercare i pidocchi che la pungono, Bianca guarda per aria e con un piede nudo gioca con la paglia, Battistina con un legnetto prova a pulirsi sotto le unghie dove c’è tanto di quel rudo che per farlo venir via ci andrebbero due o tre ore al lavatoio, Teodora fa un gioco con le mani come quelli che fanno i bambini quando sono annoiati.
E io… io mi guardo intorno, tendo l’orecchio verso i rumori che vengono da fuori, ma soprattutto le guardo, pronta se qualcuna dovesse star male a far ricorso a tutto il mio carattere (dicono che ne ho e di forte) per dare a loro una mano.
Mentre continua il sonnacchioso silenzio mi sembra di vedere nella penombra la bocca di Bianca che si muove. Cosa mastica? Guardo meglio non mastica, parla ma non le escono le parole.
Lentamente un filo di voce esce e Bianca si rivolge con lo sguardo intorno e parla.
«Done ar temp u pasa e fra poc as duvruma salutà. Mi ang go pu voja ad gnent, um n’importa pu ad gnent, ma vuiater av voi brasà che po da dlà as ritruvuma[24]».
Maria, che sembrava essersi un po’ quietata, sentendo queste parole viene presa da nuova furia.
«Mi a sun trop arrabiaia, sti discurs da piva im ma piasen mia. Ta vò savì ma clè ra storia: da chi ig son di bastard e da dlà anche[25]».
«Ma pudas che se a ga dzuma che le mja vero, che uma confesà sultant perché torturà, chi na lasa andà[26]».
«Battistina ti te propri loca e cujona[27]», le grida Maria.
«Lasla stà, lasla sperà! Lè, le facia paregia[28]».
Ancora Bianca con tono pacato aveva detto la sua e l’aria irrespirabile si tagliava con un coltello. Toccava a me, la più vecchia e forse la più saggia, riportare una specie di calma.
«Fior, l’è un brut mument, a duvuma truvà la manera da supurtà ar noster destei, clè un distei amar e bagas. Incoi u tuca vuiater e a finì sti turment. Mi e lè a faruma ra stesa fin e duvruma spicia dì per dì in sta latrina[29]».
Le mie parole dette con la voce più normale che avevo trovato dentro di me ebbero l’effetto di sciogliere la tensione.
«In fond a don cmè nuiater u tuca semper morì da giun. Ta po murì intant che ta mat ar mond un fjo, opura perché u to om ut masa ad bot, o perché un invern ad quei freg, tat ciap una freva che an ta pasa pu, o ta droc da una pianta da sres ar mes ad mag… Nuiater uma pruvà a viv ben qualche ura de sta vita grama, semper mei di quel pover don che ian mai gudu gnent e i mora malcuntent[30]»
Sarà perché avevo parlato di godere e di star bene, dei rari momenti di gioia che avevamo avuto nella vita, che il mio naso ha una strana sensazione, mi sembra di sentire un profumo invitante di coniglio arrostito con il timo e la maggiorana delle nostre selve. Possibile? Qui la fame ti fa dare di volta al cervello. Eppure dopo poco tutte e cinque siamo lì come cani da trifoli che fiutiamo nell’aria mentre il profumo sembra farsi più vicino.
Dei passi lungo la scala, un rumore di catene, catenacci: è Giacomo. È l’ora del tardo pomeriggio dell’unico pasto, ma questo odore che ci fa sdilinquire dentro cosa c’entra?
Giacomo entra, c’è la solita minestra lunga lunga con una fetta di pane nero e duro. È il pasto mio e di Teodora.
Per loro tre c’è un coniglio profumato e fumante, tre pagnotte di pane fresco e una brocca piena di un liquido che da veder così sembra vino slungato con l’acqua.
Giacomo è un po’ più sorridente del solito, lui che tira giù bestemmie come se fossero un rosario che se qualcuno lo spifferasse al vicario gli farebbe inchiavardare[31] la lingua alla porta della chiesa, come è già successo a qualche uomo di qui che (porco qui, porco lì, porco su e porco giù) ci hanno fatto perdere il vizio.
Oggi Giacomo è un po’ contento, può fare bella figura con noi con il coniglio che sua moglie ha preparato nello spiedo di casa e può sperare di prendere qualche mancia da tutti “sti signoroni” che girano per la sede del Vescovado nella giornata di oggi.
«Lè ariva ar cunfesur, lè un fra ad Turtona, ion impurtant. Pi tardi u vena per vuiater tre. Ades mangej in pas, se a gla fej[32]».
Dette queste parole Giacomo esce accompagnato dal solito rumore di catenacci. Noi restiamo lì a fissare il coniglio deglutendo incredule… quanta pietà cristiana dare un pasto decente ai condannati!
«Don, nuiater che as suma sempre aiutà, che uma semper divis quer poc che a risima a truvà, che uma pasà insema quarche ura bona, mangiuma insema anche ades che un ghe no una manera pu bela da saludas![33]»
È Maria che ci invita a fare insieme la nostra “ultima cena” e tutte siamo d’accordo. Che buono questo coniglio, com’è profumato, ben cotto e tenero, brava la donna di Giacomo! E il pane, bianco, fresco, uscito dal forno stamattina, croccante di fuori e morbido dentro. Che goduria pucciarlo nell’intigolo in fondo al padellotto, dove a turno senza bisticciare ognuna fa la sua pucciata! Che ciucciata di dita! Qui non bisogna sprecare niente, bisogna tirar su con le mani quella goccia che scivola giù per il mento e non può andare sprecata.
Anche il vino miscià[34] non è male, viene dalla cantina, è bel fresco e scende per il gargarozzo che fa un pru[35] della miseria. E mentre si mangia, momento dopo momento, la tensione cala, una dice una stupidata e giù a ridere, a ridere fino alle lacrime.
Non c’è niente di più bello di mangiare con gli amici, di condividere i gusti e piaceri che la gola ti dà. Ti piace, toh prendine ancora un pezzo!
Ed è ancora più bello quando con la soddisfazione dipinta in volto, le guance un po’ arrossate dal vino, qualcuno si mette a raccontare in burla, anche una cosa di tutti i giorni che però se la racconti bene per fare ridere diventa una comica. Così passa da una all’altra l’allegria, quell’allegria che quando ti saluti ti fa dire «Che bella sera! Troviamoci di nuovo».
Quell’allegria che quando ricordi e la racconti ancora godi di quei momenti che niente e nessuno ti potrà mai portare via.
Niente e nessuno, neanche il Vescovo o chi per lui, potrà mai portarci via questo momento, uno degli ultimi di noi cinque tutte insieme.
E niente e nessuno ci potrà portare via i rari bei momenti che abbiamo vissuto, volendoli con tutte le forze, perché la nostra vita ce ne regala ben pochi. In questo non siamo pentite, non abbiamo fatto niente di male, abbiamo cercato di sopravvivere in un mondo tanto duro e cattivo e ci siamo aiutate, se c’è del male in questo allora siamo colpevoli.
Ora il padellotto è vuoto, più pulito di così non si può, si potrebbe fare a meno di lavarlo e anche noi siamo vuote. O meglio siamo “piene”, sazie, ma vuote nell’animo perché non sappiamo come affrontare quello che ci aspetta. Intanto fuori è girato il sole e in questo stretto vicolo sotto le alte torri siamo in ombra e la luce è calata.
Riprende, anche sommessamente e poi via via sempre più intensamente, il fermento per le strade che si ripopolano.
Nitriti e sbruffate di cavallo segnalano l’arrivo di qualche ospite d’eccezione da Tortona, un rumore di ruote sul selciato e l’odore intenso dei buoi ci informano che qui vicino è allestito un carro con tanto di traino bardato a festa.
Voci all’esterno gridano a mò di richiamo: «L’è arivà ar car, l’è bardà a festa e l’è tirà da dui bucen bianc[36]».
Evitiamo di guardarci negli occhi, ognuna sembra presa da qualche movimento ripetitivo o è accovacciata a testa bassa, persa in chissà quali pensieri quando il rumore dei passi, che si sono moltiplicati, e di catene e catenacci, ci segnala l’arrivo di Giacomo.
La porta si apre, il nostro carceriere è in compagnia di due soldati che scortano un frate cappuccino.
Il confessore, sguardo forte di occhi glaciali azzurri (come quelli di San Bernardino che dicono fosse un bell’uomo), si guarda attorno, spruzza acqua benedetta in ogni angolo… eh già, ci deve essere puzza di demonio da queste parti. Poi indica Maria ed esce.
I due soldati si avvicinano, prendono Maria per le braccia e bruscamente la strattonano verso l’uscita. Un’ultima occhiata verso di noi segnala l’intenzione di prodursi in un’esplosione di rabbia e di veleno che farà gridare al frate «Vade retro Satana!».
Nella sua assenza continua il silenzio tra di noi e aumentano le voci che provengono da fuori. Un uomo parla in un gruppetto che reagisce alle sue parole con degli «uh!», «ah» che si intensificano quando questo dice: «L’è tut pront per stasira. I portan su a Castiglion indache des ani fa ian tajà ra testa ad Antonio Guasco da Spinegh[37]». Si susseguono dei «davera» e dei «ma per da bon[38]».
Un altro di questi informati aggiunge: «I faran un mas ad strei aturna a quel bel pianton[39]»
Quel bel pianton deve essere quell’olmo secolare che troneggia sul colle di Castiglione dove c’è quella capsinella[40] dove è capitato che abbiamo fregato qualcosa o dove ci siamo buttate sul fieno per un riposo di un momento. Quell’olmo frondoso all’ombra del quale più di una volta ci siamo sedute, tranquille di non essere disturbate perché quel posto fa impressione a tutti perché lì ci eseguono le condanne, decapitazioni, impiccagioni e ora anche… roghi.
A noi non faceva paura, anzi, c’era una pace da camposanto che rimetteva a posto l’anima. Ora diranno che ci facevamo lo striazzo[41].
Il fatto che io ora dica che non è vero, mai fatto nessuno striazzo, non interessa più a nessuno, tutto è ormai avviato.
Dopo un tempo che non sono in grado di valutare (l’attesa angosciosa amplifica la durata), Maria viene ricondotta: è sconvolta, arruffata e scarmigliata, ma c’è un misto di soddisfazione ed eccitazione sul suo volto.
Bianca esce con un sorriso ebete e torna con un sorriso ebete, forse il frate avrà l’illusione di aver indotto il pentimento. Per ultima tocca a Battistina che già piange e si prepara a fare il suo discorso di innocenza. Viene portata via mentre grida «L’è mia vero, a sun no na stria![42]».
Ritornano echi dall’esterno. Ora sono donne, comari che commentano. Questa voce mi sembra di conoscerla, è Margherita di Podigliano[43], le ho fatto nascere cinque figli e gli ho curato tante magagne, ma adesso non si ricorda più, è troppo presa dall’eccitazione per il grande evento. Si rivolge alle altre e comunica che sono pronte tre tuniche bianche con una grande croce rossa sul petto per rivestire “quelle tre stroliche[44]” che oggi devono sfilare tra la folla che da ogni parte del Vescovado è venuta per l’occasione. Quando una delle tre stroliche, la più ingenua e dolce, viene riportata tra di noi ha gli occhi gonfi e rossi, dal naso le cola un macarone[45] filamentoso che si è spalmato sul viso e sulle mani che ha usato a più riprese per pulirsi.
Forse ancora spera, ma non lo dice, è troppo sconvolta, biascica qualcosa che sembra una preghiera ma è un farloccamento privo di senso.
Nel frattempo è sceso il buio e dalla nostra grata inizia a intravvedersi un baluginio di fiaccole proprio come quelle delle rogazioni o del mese mariano. È uno spettacolo che mi è sempre piaciuto, la fiaccola è bella, è viva, è calda, crea un’immediata allegria. Questa volta mi fa venire la pelle d’oca, anche se qui dentro continua a fare un caldo insopportabile. Iniziano ad arrivare le voci dei cori delle litanie e dei canti religiosi… «Santa Maria… Regina peccatorum… Rosa mystica…».
Maria, Madonna cara, tu che nel tuo nome ci contieni tutte, “madonna” che vuol dire madre e donna, perché accetti che il tuo santo nome sia sulla bocca di chi sta per compiere un delitto così grande! Tu che come noi hai sofferto e ti sei sottomessa al crudele destino di veder morire giovane il tuo unico figlio, un figlio bello come solo a una mamma appare il figliolo suo.
Un figlio, uomo in croce, messo in croce da altri uomini e che se è resuscitato lo ha fatto senz’altro nel tuo cuore per alleviare una pena tanto grande. Maria, guarda in terra e impedisci che altre donne debbano soffrire così tanto solo per il fatto di essere donne.
Non so se questa è una preghiera, sono un’eretica e una miscredente, ma se c’è una cosa in cui credo è in una Grande Madre, che sia la terra, che sia tutta la natura in cui si esprime il massimo della bellezza, che sia la Madonna, ma quella di Nazareth, quella ragazza del popolo, pulita e semplice, quella che faceva da mangiare e lavava con tenerezza il suo figlio. Non queste Madonne qui, con le corone in testa, con le catene d’oro al collo, Madonne fredde, di gesso, con gli occhi fermi e le guance rosse, la mia Madonna è una donna, una gran donna che custodisce il segreto della vita.
Vita che ora se ne va. Entrano e riempiono lo stanzino sei soldati con le tuniche. Io e Teodora ci ritiriamo in un angolino. I sei omaccioni prendono per le braccia le nostre amiche e calzano dal capo la lunga tunica. Gli sta fin bene, almeno copre tutto quel sudiciume, poverine!
Mi si lacera il cuore a vederle così, con quei visi che vorrebbero dire tante cose ma non ne esce nemmeno una. Ognuna con il suo carattere e le sue reazioni, Maria che farà fuoco e fiamme lei, Bianca che più che bianca ormai è trasparente e fioca, e Battistina che già piange ed urlerà per tutta la strada la sua innocenza.
Quando stanno per portarle via, dico a Teodora: «Non guardare! E le abbasso la testa in un angolo».
Io invece le guardo, so che per molte notti mi sognerò i loro sguardi. Allungo una mano e la agito in segno di saluto, vorrei dire: a presto! Ma non mi esce dalla bocca.
Una frazione di secondo e la porta è richiusa. Sentiamo i passi su per le scale e poi il boato della folla quando appaiono in strada. Ora dal brusio capisco che le stanno sistemando sul carro perché siano ben visibili da tutti.
Sento le urla di Battistina che si mescolano con le litanie: «L’è mia vero. A sun no na striaaaaaaaaaa!». Quella “a” prolungata, che sembra l’urlo della donna quando dopo tanta fatica e tanto spingere esce il bambino, mi riporta al mio passato e profetizza il mio futuro.
Teodora si è cucià[46] nella paglia, io resto seduta ad ascoltare, mani in grembo, lo scalpicciare dei piedi e poi il rumore del carro che parte con tutta la processione orante al seguito.
Deve esserci tanta gente, perché passano tanti sucròn[47] su sto selciato e piano piano il rumore va, scema, si allontana finché il paese resta muto. In lontananza l’abbaiare di qualche cane segnale il passaggio della processione, ma qui ormai tutto tace. È un paese deserto, dove non c’è essere umano che noi due, chiuse, prigioniere in questa stanza…
Quanto tempo sarà passato da quando il rumore è cessato, quanto tempo dovrà ancora passare prima che anche la nostra volontà sia piegata?
Non lo so e non ci voglio pensare, così come non voglio pensare all’olmo e all’orrendo spettacolo che si sta consumando là sopra.
Teodora alza il capo dal suo accucciamento, mi guarda con i suoi grandi occhi da bambina, si alza in punta di piedi verso il finestrino, sbircia tra le grate e mi dice:
Parmina, varda a ghe ra lona![48]
[1] Mi chiamo Parmina, Parmina Gatti e sono di Cuquello. Che caldo, fa un caldo da morire in questa stanza dove da tanti giorni stiamo in cinque donne. Quanti giorni, quanti topi e scarafaggi in questa paglia. Maria, Bianca e Battistina sono disperate… oggi tocca a loro. Io e Teodora non sappiamo e aspettiamo.
[2] Domani le tre più giovani vanno a fuoco.
[3] Perché io lo attaccavo al seno ma il seno dava acqua.
[4] No, non sono una strega, non è vero!
[5] Vogliono vedere la strega e io gliela farò vedere. Gli farò prendere uno spavento che non dormiranno più alla notte.
[6] Gli escrementi dei buoi.
[7] […] che tutte le tonache strusciando per terra si sporcano.
[8] Che fame, muoio di fame. Quanta fame, io che ero uno donnone, grande e grosso… che tutti gli uomini mi correvano dietro perché avevo un gran bel sedere e un seno florido.
[9] Una lepre.
[10] Mangiare, più vicino al significato “masticare voracemnte”.
[11] Minestra.
[12] Dal latino: “maestra”. Si desume dalla sentenza del processo.
[13] Capace di far nascere i bambini (levatrice).
[14] La febbre.
[15] Dal latino: “nel luogo di Frugarolo”. Particolare contenuto nella sentenza del processo.
[16] Un temporalone a Frugarolo.
[17] Signornò, si sbaglia, non ho mai fatto una cosa simile.
[18] Si tratta della tortura detta anche “scasso”, “squasso”, “strappada” o “tratto di corda”, che consisteva nell’appendere per le mani o sotto le ascelle il condannato che veniva lasciato appeso per un certo periodo di tempo, dando di tanto in tanto dei “tratti di corda” che producevano grandi dolori e slogatura delle ossa.
[19] Il barbiere, sinonimo di medico, visto che i barbieri esercitavano anche arti mediche.
[20] La setta del Barlot (barilotto) tra Piemonte, Lombardia e Val Padana equivaleva al Sabba. L’accusa di andare al “Barlot” ricorre anche nella sentenza a Caterina Medici di Broni, arsa al rogo a Milano nel 1617.
[21] Bambini.
[22] Sono giovani.
[23] Sonnolenza.
[24] Donne il tempo passa e tra poco ci dovremo salutare. Io non ho voglia di niente, non mi importa più di niente, ma voi vi voglio abbracciare che poi nell’aldilà ci ritroviamo.
[25] Io sono troppo arrabbiata e poi questi discorsi da debole non mi piacciono. Vuoi sapere com’ è la storia: di qui ci sono dei bastardi e di là anche.
[26] Ma può darsi che se gli diciamo che non è vero, che abbiamo confessato solo sotto tortura, può essere che ci liberano.
[27] Battistina sei proprio stupida e cogliona.
[28] Lasciala stare, lasciala sperare. Lei è fatta così.
[29] Ragazze è un brutto momento, dobbiamo trovare il modo di affrontare il nostro destino, che un destino amaro e ingiusto. Oggi tocca a voi e finite questi tormenti. Io e lei faremo la stessa fine e dovremo aspettare giorno per giorno in questa latrina.
[30] In fondo a donne come noi tocca sempre morire da giovani. Puoi morire mettendo al mondo un figlio, oppure perché tuo marito ti ammazza di botte, o perché un inverno di quelli freddi ti viene una febbre che non ti passa più, o perché cadi da un albero di ciliegie a maggio… Noialtre abbiamo provato a vivere bene qualche ora di questa pessima vita, sempre meglio di quelle povere donne che non hanno goduto niente e per questo muoiono infelici.
[31] Inchiodare.
[32] È arrivato il confessore, è un frate di Tortona, uno importante. Più tardi viene per voi tre. Adesso mangiate in pace, se potete.
[33] Donne, noi che ci siamo sempre aiutate, che abbiamo sempre diviso quel poco che ci riusciva di trovare, che abbiamo passato insieme qualche ora buona, mangiamo insieme anche ora che non c’è un modo migliore di salutarci.
[34] Mischiato, allungato.
[35] Un piacere infinito.
[36] È arrivato il carro, è parato a festa ed è trainato da due buoi di razza bianca.
[37] È tutto pronto per stasera. Le portano sul colle di Castiglione dove dieci anni fa hanno decapitato Antonio Guasco di Spineto (fatto realmente accaduto).
[38] Davvero; lo dai per certo.
[39] Faranno un mazzo di streghe attorno a quella grande pianta.
[40] Cascinetta (riferimento autentico contenuto nella sentenza).
[41] Il sabba.
[42] Non è vero, non sono una strega.
[43] Comunello presso Sant’Agata Fossili. Era stato sede del Vescovado prima di Carezzano.
[44] Quelle tre streghe, anche se il termine dialettale strolica da “astrologa” serve per indicare una donna stramba e mal vestita (vedi anche per l’uso la parte iniziale di Johan Padan a la descoverta de le Americhe di Dario Fo).
[45] Carena.
[46] Si è accucciata.
[47] Zoccoli.
[48] Parmina, guarda c’è la luna.