Parole sepolte – Capitolo 26
Ecco il capitolo 26, il primo dellla seconda parte, del romanzo Parole sepolte di Andrea Barresi!
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Capitolo Ventisei
“Avrei voluto riposare anche io dopo il funerale, ma un messaggero ha riportato un fatto… preoccupante,” spiegò Fadan scorrendo con gli occhi i simboli sulla pergamena. “E dobbiamo discuterne con te prima della prossima Assemblea.” Feci un gesto confuso con la mano per dire a Fadan di raccontare. Cercavo di tenere a bada la nausea, ma il mondo intorno a me era instabile.
“Alcuni contadini a nord dell’Altopiano riferiscono di cattivi raccolti. Circa due sestetti di animali sono morti spontaneamente solo nell’ultimo mese.” Le parole del giovane opalino atterrarono sul mio petto con un peso disumano.
Vomitai.
Non era possibile.
O meglio: era possibile, ma incredibile.
Fino a quel momento i Gran Maestri avevano prestato ascolto ai resoconti di tutti i contadini dentro e fuori l’Altopiano. I raccolti erano sempre stati fiorenti nonostante il cambio di produzione accordato due anni prima, pertanto dopo le prime Assemblee a Opal avevamo attribuito le cause della carestia unicamente agli interventi veliodi. Ma se persino i campi iniziavano a tradirci, quanto potevamo aspettarci di resistere?
“Non è tutto,” disse Fadan estraendo una piccola pergamena rossa. Su di essa non vi erano parole o lettere ma un disegno con strani simboli che non conoscevo. “Ho provato ad abbozzare una rappresentazione per farti capire meglio. Questa linea serpeggiante è la Vita del Nord. Più a nord, circa intorno a questo punto,” disse indicando un cerchio sghembo, “Lì è dove i contadini riportano difficoltà.”
Normalmente avrei cercato di ragionare su cosa ciò potesse comportare, ma mi limitai ad ascoltare, stremata.
Tesfaj, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si accovacciò di fianco al letto: “È il luogo dove ilå vel…” strinse i denti, ”Dove sono stato assalito.” La pioggia pacata ovattava le nostre discussioni. Quasi come se una parte di Zahari fosse rimasta dentro di me, indicai a Tesfaj di chiudere le finestre e così fece.
Fadan cercò di mantenere la calma: “Non sappiamo ancora esattamente cosa stia succedendo, ma…”
“Ma devo andare a controllare di persona,” sussurrò Tesfaj dopo aver chiuso l’ultima finestra.
“No,” risposi laconica senza alzare la testa dal letto. “Il divieto di lasciare Opal vale
anche per te adesso. È proprio per evitare di metterci in pericolo. Altrimenti anche io sarei sul Nui Samse adesso.”
Tesfaj strinse il pugno; normalmente sarebbe stato furioso, ma non potevo fare a meno di notare che non era più così.
“Ascolta, Ryeles. Molto probabilmente è successo qualcosa di grave a causa mia. Non so cosa esattamente, ma tu per prima dovresti capirmi: ti dissi che non ricordavo nulla di ciò che accadde quando usai…” Tesfaj esitò. Fadan si voltò verso di lui confuso. “…quella tecnica,” continuò Tesfaj.
“C’è qualcosa che mi sfugge?” chiese allora Fadan, sorpreso che esistesse qualche tecnica che lui non conoscesse.
“L’arteligrafia,” dissi tra un respiro profondo e l’altro, fissando Tesfaj. Una parola per un concetto ancora ignoto, ma non potevamo tenerlo nascosto per sempre, lo sapevam anche lui. “Ma non ne conosciamo ancora a fondo le conseguenze e gli effetti,” continuai.
Tesfaj sbuffò, in disaccordo con la rivelazione che diedi a Fadan: “In ogni caso, partirò a breve. Risolverò la questione prima della prossima Assemblea Splendente, per evitare che si diffonda il panico. Se gli opalini iniziassero a temere i cattivi raccolti… sarebbe un futile motivo per riaccendere le divisioni tra fazioni.”
Sapevo che Tesfaj aveva ragione, ma come al solito il suo modo di affrontare i problemi addossandosi tutti i rischi non mi andava giù.
“Non ti permetto uscire da Opal,” incalzai, nonostante la mia posizione non ispirasse alcuna autorità in quel momento, “Te lo chiede una Gran Maestra.”
Fadan, in evidente imbarazzo durante il battibecco, si alzò e fece per uscire: “Credo che questa sia una discussione fra di voi, io sono qui solo per riportare il messaggio che hanno inviato a Opal. Non ho nessuna idea per risolvere questo vostro contenzioso, ma potrete trovarmi alla Torre Alveare se avrete bisogno di aiuto o di inviare risposte. O se vorrete spiegarmi questa ‘arteligrafia’ di cui mi avete tenuto all’oscuro.”
Non appena la porta si chiuse alle spalle del giovane mnemonista, Tesfaj rispose sottovoce: “Lo so che non ti fidi. Hai paura che possa di nuovo mettermi in pericolo, lo capisco. Ma ora ho padroneggiato le basi e non rischio più ritorni di fiamma. Inoltre i velim non oseranno più mostrarsi, sapendo che posso affrontarli.”
“Tu vuoi affrontarli,” dissi mettendomi a sedere con fatica, la testa fra le mani. “Ti conosco. L’hai sempre voluto. Ma come mi dicesti mesi fa, non possiamo rischiare di innescare una spirale di violenza senza uscita.”
Tesfaj strinse l’aria di fronte a sé: “Te l’ho già detto, non farei mai un salto del genere. Non sono un folle suicida. Sono consapevole del rischio e sono pronto a correrlo perché è necessario, ma non sarei mai il primo a colpire. Metterei non solo me stesso, ma l’intera Opal con le spalle al muro.”
Per la prima volta da quando ebbi memoria, alzai la voce: “Perché sempre tu?
Perché tu puoi permetterti di correre un rischio enorme, fosse anche necessario, per
risolvere un tuo errore… e a me non è concesso?”
Tesfaj non rispose.
Saltai in piedi, fragile: “Perché a te è permesso lanciarti nell’ignoto, recuperare oggetti nascosti, persino affrontare i velim faccia a faccia, mentre io sono costretta a rimanere nella bambagia come una bambina? Perché non mi è permesso assumermi le responsabilità che le mie azioni comportano? Non dovrebbe essere una qualità esemplare per una Gran Maestra, essere un riferimento di virtù per tutti gli opalini?”
Barcollando e con gli occhi lucidi, mi diressi verso il piccolo forno d’argilla. Tesfaj iniziò a passeggiare per la stanza, un lampo portò a galla il portamento della mia mentore.
“Perché io non sono nessuno,” rispose infine. “Non sono apprendista di nessuno, non sono un Gran Maestro, non ho il compito di insegnare o trasmettere a nessuno conoscenze fondamentali, non sono il cuore di Opal. Tu sì.”
Mi limitai a tagliare alcuni ortaggi con un piccolo coltello d’argento, ancora una volta silenziata dalla pragmatica logica nivjota.
“Fa’ come ti pare,” chiusi esasperata. “Vorrei che nessuno dovesse correre rischi, né a Opal né altrove. Ne abbiamo già tutti corsi a sufficienza.”
Versai le verdure in una pentola di rame con dell’acqua; a stento mi sedetti, ponendola sopra le braci spente, ma non appena presi in mano le pietre focaie Tesfaj mi interruppe con un cenno. Si inumidì le dita di artelis, fece tre passi indietro e tracciò un rapido simbolo sul braccio destro. Non appena quello svanì, una fiammata schizzò caotica verso il focolare, lasciando dietro di sé timidi tizzoni brillanti.
Mi portai i palmi al volto per saggiarne il calore confortevole: “Non dubito della tua… padronanza dell’arteligrafia. Ciò non mi impedisce di preoccuparmi per te.”
Mescolai il contenuto e aggiunsi alcune spezie opaline senza guardarlo negli occhi, “Verrò con te.”
“Non puoi,” rispose immediatamente dirigendosi verso l’uscita. “Sei troppo importante per Opal. Immagina la reazione di tutti se te ne andassi all’improvviso, o se ti succedesse qualcosa di grave. Questa ormai è la tua città, la tua gente,” disse allontanandosi.
“Perché non può essere anche la tua?” chiesi, fissandolo negli occhi, a un passo dalle lacrime.
Tesfaj esitò ancora, la sua mano era immobile sulla maniglia della porta. “Non sono mai stato parte di un luogo, e non ho intenzione di iniziare ora. Sono qui a Opal solo per convenienza; non diventerà mai la mia casa.”
Il bollore dell’acqua riempiva la stanza muta.
“Ti manderò alcune lettere. Non starò via più di tre sestetti.”
Con quelle parole uscì sotto la pioggia battente, lasciandomi a fissare le danze frenetiche delle fiamme sotto la pentola.
Non potremmo semplicemente condividere i doveri, oltre che gli obiettivi? Se ciascuno di noi fosse parte della soluzione non ci sarebbe bisogno di una sola persona che si fa carico di tutte le responsabilità. Pochi problemi hanno soluzioni attuabili da un solo individuo, eppure la prima domanda che affiora è sempre «cosa posso fare io?» e mai «cosa possiamo fare noi, insieme?»
Mentre il vapore tiepido s’innalzava con i suoi aromi vegetali, realizzai che dovevo, potevo intervenire nel colmare questo vuoto. Bastava la parola per comunicare questo concetto, aveva già funzionato in passato; il tempo avrebbe fatto il resto. Presi il mio stelo bianco e iniziai a scarabocchiare sulla prima pergamena a portata di mano:

Tutto qui? Nonostante fossi consapevole del linh che ancora una volta mi aiutava a veicolare le idee da una forma eterea a un simbolo tangibile, non potevo fare a meno di notare come fossi ancora bloccata. L’unico margine di azione che avevo era quello: scarabocchiare su pergamene, forse partecipare a qualche Assemblea di tanto in tanto. Se non ero riuscita a convincere Tesfaj, che speranze avrei avuto di convincere gli altri opalini, o una città intera? E intanto lui sarebbe andato là fuori a fronteggiare le ire dei velim. Da solo. Non potevo accettarlo. Non potevo permetterlo.
Anzi, potevo non permetterlo. E non l’avevo fatto.
Perché?
Perché non ero Zahari.
Non avevo quell’aura di fiducia e di rispetto che aveva agli occhi di chiunque e che portava non a seguire gli ordini ma a comprendere e a chiedere consiglio. Non avevo esperienza, la mia aodai da Gran Maestro mentiva. E il bastone della mentore rimaneva intatto nello stesso luogo, non ero degna di farne uso.
Anche io non ero nessuno. Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
Non sono nessuno.
[Alcune pagine sono state strappate.]