Pocket Money
Ecco il secondo capitolo del romanzo Un guscio di noce tra le onde di Davide Tarozzi.
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Capitolo due
Pocket Money
Se il palazzo di Cerreto della Pietra di notte mi era sembrato orribile, di giorno è anche peggio. Tutto quello che con il buio non ero riuscito a scorgere ora lo vedo molto distintamente: sono in uno stabile abbandonato nel nulla, in aperta campagna. E ci vivono delle persone.
Il retro è una specie di discarica abusiva, l’interno cade a pezzi e ho paura di rimanerci schiacciato dentro insieme ad altre quaranta persone. Salgo le scale vedendo molto più chiaramente la sporcizia e scorgendo le evidenti crepe sui muri. Come se non bastasse metà ala della palazzina è abitata, mentre l’altra è completamente abbandonata. Da quel lato, infatti, l’assenza umana è palesata da uno strato di guano spesso centimetri che copre il pavimento di un terrazzo esterno. Mi premuro di controllare quelli successivi sporgendomi dalla finestra delle scale e vedo che l’insudiciamento negli altri casi non è così estremo. Qualche rifiuto e il cadavere di un piccione.
Arrivo all’ultimo piano e un paio di lenzuola stanno asciugando sopra un listello appoggiato tra un armadio pieno di bidoni e il muro.
Quando entro nell’appartamento dei nigeriani vengo praticamente assalito da tutti: si lamentano di non aver ancora ricevuto il cibo e che mancano tante cose di cui hanno bisogno.
Mentalmente ripenso con molta stizza alla chiamata di Luis di poco prima:
– Ciao Emilio! Bisogna tornare nell’appartamento di Justice a fare la spesa, perché in effetti siamo usciti di fretta e non l’abbiamo fatta bene. Hanno chiamato diverse volte per lamentarsi.
Quel plurale mi irrita parecchio. Avrebbe dovuto mostrarmi il lavoro e tutte le cose da fare, invece se n’è andato lasciandomi con questa patata bollente tra le mani per la quale ho dovuto rivedere tutta l’organizzazione della giornata. Giornata, peraltro, che non è iniziata nel migliore dei modi.
Stamattina sono dovuto correre a destra e a manca rimanendo un sacco di tempo in ospedale perché all’ultimo mi è stato detto di accompagnare a una visita Bobo, un guineano che non parla né francese né inglese ma solo portoghese, oltre alla sua lingua. Non capendo nemmeno l’italiano si porta dietro Kalidou, un senegalese che parla inglese e che dovrebbe fare da interprete tra me e lui. Ho il sospetto che nessuno dei due sia riuscito a capire molto, viste le barriere linguistiche, ma perlomeno la visita ha escluso qualunque malattia infettiva, tranquillizzando soprattutto me.
Nell’andare avanti e indietro con la mia macchina mi sono chiesto se tutta quella benzina fosse inclusa nei rimborsi, visto che alla mia domanda su cosa andasse considerato ho ricevuto risposte vaghe e fumose da tutte e tre le persone a cui mi sono rivolto.
Dentro l’appartamento c’è molta agitazione e sono tutti piuttosto infuriati per non aver ricevuto il cibo. Cerco di tranquillizzarli dicendo loro di stare calmi e che verrà portato tutto, ma uno di loro sembra ancora più irritato da questa mia affermazione e in un gesto di sfida si toglie la maglietta mostrando il petto nudo per poi sedersi a tavola e mangiare grossi bocconi con un cucchiaio da un piatto stracolmo di riso.
Tra le risate generali, fatico un attimo a capire il senso di quel gesto (che non sia quello di una mera provocazione da bullo) quindi lo guardo e mi limito a ridere anche io. Agita il corpo come a dire che me la farà pagare ma decido di ignorarlo e rivolgermi a un altro ragazzo a caso che sembri più tranquillo, per fare finalmente questa benedetta spesa. La faccio insieme ad Anthony, un ragazzo non molto alto e un po’ tarchiato che indossa un paio di pantaloni scuri, calzettoni spessi dentro le ciabatte, maglione pesante e cappellone di lana. Apre cassetti e ante per farmi vedere cosa manca e con le dita indica la quantità. Segno tutto quello che chiede senza cambiare nulla.
Solo più tardi scopro che il nome di quello che si è tolto la maglietta è Justice e ripenso a ciò che mi aveva detto Mara: “rumorosi e teatrali”.
Abbastanza stanco passo negli altri appartamenti ed entro nell’ultimo che ormai si è fatto buio. Sono in quattro dentro la cucina, avvolti da un’atmosfera piena di vapore. I vetri sono appannati e l’aria è pesantissima e umida. Due giocano a calcio alla Playstation, uno cucina e un altro è seduto che beve. Degli altri due beneficiari uno è da solo nella sua camera da letto mentre l’altro smanetta con il cellulare seduto sulla poltrona-letto all’ingresso.
Appena entro smettono di parlare e cade il silenzio. Li saluto e provo a fare qualche domanda parlando un po’ in francese e un po’ in italiano. Mi risponde Bakaré, un ivoriano che parla molto bene l’italiano, in maniera sintetica e diffidente, anche a nome degli altri. Mi guarda negli occhi per brevi momenti e poi distoglie lo sguardo volgendosi altrove.
Non insisto a lungo nel fare conversazione e decido di andare via.
– Come ti chiami?
Mi chiede Diawandou, un senegalese ben piazzato, capelli rasati, che sta maneggiando dentro il lavandino un blocco intero di carne cercando di tagliarla in piccoli pezzetti con un lungo coltello.
– Emilio.
– Come mio figlio.
Vedo la sua postura cambiare senza avere la possibilità di incontrare il suo sguardo perché avanza leggermente e il suo volto scompare dietro l’anta dello scolapiatti.
Il fatto di essere l’ultimo arrivato certamente non mi rende privilegiato, ma piuttosto il contrario. Devo adattarmi un pochino, motivo per cui non mi sono scomposto più di tanto quando sono stato inserito come operatore di turno per il lavoro volontario. Alcuni ragazzi si occupano della pulizia delle aree verdi del Parco del Castello e da come mi ha anticipato Eugenio, l’operatore che seguiva questa attività prima di me, non è nulla di particolarmente impegnativo. Si tratta di presentarsi al parco all’orario di inizio turno, segnare i nomi dei ragazzi partecipanti, fare qualche foto per documentare l’evento a fini promozionali (politici, s’intende) e se riesco passare al termine del servizio per vedere com’è andata.
La cosa più difficile pare sia gestire il responsabile del progetto che è un rompipalle clamoroso. Il maresciallo in pensione Luigi Dalmione, infatti, non vuole assolutamente contraddire le mie aspettative e, non abbiamo neanche finito di presentarci, che subito espone le sue rimostranze: l’associazione gli manda poche persone e lui ne ha bisogno per fare un buon lavoro. Si sono presentati solo tre ragazzi, tutti di Cerreto della Pietra peraltro; cerco di mediare dicendo che avrei fatto presente in ufficio per provare a organizzare dei gruppi più folti insieme ai colleghi. Dentro di me invece sento stridere il fastidio dell’atteggiamento di chi esige e pretende da subito senza prima provare modalità più morbide.
Manda uno dei suoi collaboratori a prendere rastrelli e scope e le fa distribuire ai ragazzi presenti, Anthony, Francis e Samuel, tutti coinquilini di Justice. Si rivolge a loro in maniera imperativa, decisamente molto irritante. Parla in italiano nel peggior stereotipo degli indiani d’America da film hollywoodiano:
– Voi pulire! Raccogliere foglie e ammucchiare qui!
Ripete più volte mimando il lavoro con gesti goffi.
– Tu capire?
Dice rivolto ad Anthony che guarda lui e poi me con risentimento. E lo capisco, perché anche io sarei nervoso se qualcuno mi trattasse come uno stupido.
– Secondo me non ha capito niente questo qui.
Dice Dalmione mentre censuro la voglia di fargli presente che avranno visto una scopa altre volte nella loro vita.
Rimango un po’ a guardare come si svolge il lavoro e poi, prima di andare, ricordo loro l’appuntamento del giorno dopo alle 3 davanti alla questura con tutti i loro compagni di appartamento. Li spingo ad avvertire anche gli altri, ma faccio presente che comunque alla sera avrei mandato un messaggio a tutti. È stata organizzata dall’infermiere una giornata di vaccinazione per tutti i beneficiari nei locali dell’ex-collegio.
– Ma devo accompagnarli io? Non conoscono il posto?
– Non lo so, sì forse è meglio accompagnarli. Se vi date come punto di ritrovo la questura, sicuramente lì sanno come arrivarci, visto che ci vanno spesso a farsi rinnovare il permesso di soggiorno.
Mi aveva detto Elena, che prima gestiva gli appartamenti di Justice e di Ezekiel.
Ho l’impressione che vengano trattati un po’ come dei bambini, ma per ora non voglio correre rischi, visto che mi viene fatto chiaramente presente che nessuno di loro può permettersi di mancare.
Un quarto d’ora prima dell’appuntamento davanti alla questura, il telefono già squilla. Dall’altra parte Justice vuole sapere dove io sia, visto che loro sono già arrivati. Il tono è arrogante, come al solito. Mi chiedo quale sia la concezione del tempo per loro. Se ci siamo detti alle tre perché devi già iniziare a chiamarmi solo perché tu sei arrivato prima del previsto? Mi sento irritato da questo suo atteggiamento, ma quando arrivo sul posto è anche peggio: sono solo cinque, dovevano essere dodici. Cerco di trattenermi, anche se sento montare l’ansia. Non è nemmeno una settimana che ho iniziato a lavorare qui e già mi perdo sette persone. Riconosco Justice, mentre gli altri volti ancora non li ho associati a un nome. Sarà difficile capire chi si è presentato e chi no. L’ansia si sta tramutando in un vago accenno di panico.
– Ma che cavolo mi chiamate un quarto d’ora prima se nemmeno ci siete tutti? Dove sono gli altri?
– Tranquillo. Arrivano. Andiamo.
– Ma non è meglio aspettarli?
– Andiamo.
– Ma sanno dove dobbiamo andare?
– Andiamo, tranquillo.
Mi dice Justice in tono calmo mentre con il braccio mi accompagna a fare strada. Mi muovo verso l’ex-collegio molto contrariato dalla situazione, loro stanno alle mie spalle. Fanno rumore e scherzano tra di loro, magari mi prendono in giro. Comincio ad accompagnare loro e poi vedo come recuperare gli altri.
Stiamo per attraversare una strada che porta verso il centro, di quelle per nulla trafficate, quando il sopraggiungere rapido di un’auto mi spinge ad allungare un braccio per fermare uno degli ospiti che stava passando. La macchina non rallenta minimamente pur avendolo visto e lui la segue con gli occhi guardandola male. È il ragazzo dal nome impronunciabile tipo scioglilingua che per comodità viene chiamato da tutti Johnny.
Come Johnny Mnemonic o Johnny Freak.
O Johnny Dorelli.
Beh, anche come Johnny Cash e Johnny Rotten.
Arrivati all’ex-collegio ci troviamo di fronte una bolgia assurda. Una marea di persone dell’associazione che deve fare la vaccinazione. Mi chiedo come farò in questo casino a riconoscere i ragazzi che seguo. In realtà sono loro a farsi trovare, perché un gruppetto di cinque si avvicina a noi. Scorgo Samuel quindi immagino siano tutti da Cerreto della Pietra. Ne mancano due ma non so chi siano. Cerco di fare l’appello ma sono smarrito perché, ovviamente, non stanno fermi e vanno a parlare con altri, quindi mi ritrovo a chiedere due o tre volte il nome sempre agli stessi.
Non solo sono in difficoltà perché devo rintracciare chi sono i due mancanti, ma contemporaneamente devo tranquillizzarli perché continuano a chiedermi cosa stia succedendo e perché si trovino tutti lì. Samuel in maniera piuttosto rude mi dice di andare a chiedere spiegazioni ma con cortesia rispondo che devo occuparmi di altro e che può chiedere anche da solo.
Arriva Willy, magro e con i dreadlock, quindi ne manca uno solo che mi pare essere Jonathan. Lo chiamo al cellulare più volte ma non mi risponde. Contatto Elena ed è lei a chiamarlo visto che ancora non ho molta confidenza con loro. Jonathan mi richiama e mi dice che sta arrivando ed è vicino.
Passa più di mezz’ora e ancora non si vede. Gli altri invece hanno già fatto tutto e se ne sono andati senza dire nulla, iniziano a esserci meno persone e la confusione sta lentamente scemando.
Sono fuori davanti al portone ma ancora non si fa vivo nessuno. Vedo arrivare un ragazzo dall’andatura molleggiata, scarponi invernali alla moda e giaccone. Stuzzicadenti in bocca e orecchino di brillante. Occhi chiari dal taglio affusolato come i lineamenti del volto. Il colore mi ricorda una pietra che avevo trovato in una di quelle collezioni in uscita in edicola chiamata “occhio di tigre”, ha le stesse sfumature. Mi stringe la mano in maniera molto impersonale e poi va dentro senza ribattere alla mia puntualizzazione sul suo ritardo. In cinque minuti esce e se ne va. Ha qualcosa di diverso dagli altri che non riesco a mettere a fuoco.
Rientro all’interno del cortile per sedermi un attimo e riprendermi dalla confusione. Ho fatto passi da gigante negli anni ma stare in mezzo alla folla e al rumore mi lascia sempre a secco di energie e leggermente disorientato.
Mi si avvicina Sebastiano tenendo le mani unite dietro la schiena in un gesto molto distinto e in linea con il suo modo di essere.
– Allora, come è andata?
– Tutto sommato direi bene. Mancavano quasi tutti ma poi sono arrivati. L’unico che non riuscivo a rintracciare era Jonathan.
– Jonathan Owolabi?
– Esatto. Lo conosci?
– Sì. Bisogna stare un po’ attenti con lui perché può essere che spacci e abbia giri strani. Lo avevamo spostato a Cerreto proprio per questo.
– Ah.
Adesso capisco cosa non riuscissi a mettere a fuoco: i vestiti. Aveva abiti più nuovi e probabilmente più costosi rispetto agli altri.
– Tu invece?
– Per me questo è l’ultimo periodo. Alla fine del prossimo mese vado via.
– Come mai?
– Ho trovato altro, più in linea rispetto a quello che ho studiato.
Mi spiace seriamente. Mi aveva dato da subito l’impressione di una persona solida amante del lavoro che stava svolgendo, di quelli che investono tanto anche dal punto di vista umano.
– Qui come ti sei trovato?
– Il lavoro in sé è molto bello. Conosci tante persone e realtà diverse, sei sempre in movimento. Allo stesso tempo è anche molto stressante perché non sempre le situazioni sono facili.
– Con i ragazzi?
– Non solo. Anche con l’associazione. La sensazione è un po’ quella di essere buttati in un posto, abbandonati a sé stessi e ci si deve arrangiare. In più se prendi l’iniziativa e va a buon fine, sfruttano la scia e fanno un sacco di feste, diversamente cadi in disgrazia.
Mi incupisco un attimo e ripenso a Roberta, una collega dimissionaria che aveva usato le stesse identiche parole con cui ho avuto tempo di scambiare solo poche battute.
– Non sei il primo che me lo dice. Tra l’altro da quando sono arrivato se ne sono andate già altre due persone.
– Qui il turnover è molto alto, ma nessuno in direzione si preoccupa.
Entro in ospedale senza sapere bene dove andare ma raggiungo la sala d’aspetto del reparto malattie infettive dopo aver girato a vuoto per scale, piani e corridoi neanche fossi dentro un labirinto. L’appuntamento con Luis era previsto alle 4, ma penso che mi si possano perdonare cinque minuti di ritardo. In fin dei conti sono venti minuti che giro qui dentro senza trovare la strada. I cartelli sono infingardi. Sembra che indichino una direzione ma in realtà devi prenderne un’altra e lo scopri solo quando ti trovi al termine di una scala che finisce nel nulla. O, peggio ancora, a volte ce ne sono due identici che vanno in direzioni diametralmente opposte.
Alla fine, arrivo. Mi siedo sopra una sedia nella sala d’aspetto esterna al reparto. Ci siamo io, un distributore di bibite e una signora anziana che sonnecchia. Trascorro mezz’ora in attesa fissando alternativamente il muro e la finestra dalla quale si gode di una discreta visuale della città. Peccato che sia totalmente insignificante, ma si sa, dall’alto sembra tutto più bello. Ogni tanto controllo sul cellulare le notizie dell’«Ansa». Di Luis ancora non si vede l’ombra fino a quando non provo a chiamarlo. Ok, lui è già dentro quindi ho perso mezz’ora inutilmente. Avrebbe almeno potuto avvertire di essere già entrato. Certo, anche io in effetti avrei potuto chiamarlo prima.
Entro e cerco la stanza. Riconosco Luis appoggiato al davanzale della finestra. Dentro ci sono due letti ma solo uno è occupato.
– Vi presento. Lui è Demba. E lui è il tuo nuovo referente.
Ci dice mentre ci salutiamo. Demba è estremamente magro, mi colpisce la sua testa molto rotonda e la faccia seria e imbronciata. Luis mi spiega che eè arrivato a pesare 36 chili e ora ne ha presi 20. Lo hanno ricoverato un mese fa perché è affetto da tubercolosi ossea. Dovrà portare il collare per diverso tempo, stare attento a non sollevare pesi e a fare qualunque movimento per non rischiare la rottura di qualche vertebra e rimanere paralizzato. Il suo piano terapeutico prevede medicine e antibiotici per lungo tempo, non è infettivo ma necessita che sia controllato perché non può né sospenderle e nemmeno sbagliarle.
Quando Luis si allontana Demba mi osserva e mi ripete più volte di sedermi sulla sedia. Lo sento come un gesto di cortesia e di accoglienza, ma declino perché credo che stare in piedi mi faccia smaltire una parte della tensione nata al pensiero di dover seguire una persona con grossi problemi di salute.
Nel giro di un’ora viene dimesso e salutato con affetto dalle infermiere che ci caricano di medicine. Lo portiamo nell’infermeria dell’associazione dove c’è Fabrizio, il nostro infermiere, ad aspettarci. Demba parla solo la lingua del suo paese, alcuni dialetti e pochissimo italiano. Non c’è speranza di farsi capire in inglese o in francese e per questo Fabrizio spende quarantacinque minuti per spiegargli tutte le medicine che deve prendere e quando. Nella mia mente visualizzo scenari apocalittici di quanto di più tragico possa succedere a Demba e conseguentemente a me che sono responsabile. Inizio ad agitarmi.
Al termine dell’incontro Fabrizio lascia a me e a lui copie del piano terapeutico e per sicurezza mi segno anche quando avrebbe finito le medicine. Scriviamo sopra ogni scatola quando va presa, in che quantità e poi le dividiamo rispettivamente in tre buste di plastica trasparente, ognuna di esse con una scritta diversa: mattina, pomeriggio e sera.
– Attaccale con il nastro vicino al letto in modo che le veda e mi raccomando controlla che abbia preso tutto quando passi nel suo appartamento! Non può permettersi di sbagliare!
– Ma lui è infettivo?
– No, non ti preoccupare. L’importante è che prenda le medicine. Controlla, mi raccomando!
Lo riporto nella sua stanza e sono per nulla tranquillo. Per tutto il viaggio che facciamo in macchina provo a parlare ma ho la netta impressione che Demba non capisca niente di quello che dico, ma continuo ugualmente cercando di non usare termini difficili.
Entriamo nell’appartamento di Amara e sono tutti contenti di vederlo. Ora sono in cinque. Ne manca sempre uno che si trova da qualche parte a lavorare in una fattoria come tirocinante. Sistemo le buste di plastica come mi è stato detto e mi assicuro ancora che Demba abbia capito. Spiego la situazione anche ad Amara e agli altri senza creare allarmismi, non c’è nessun pericolo, ma chiedo loro di controllare che Demba prenda le sue medicine. Mi rivolgo in particolare ad Amara e ad Alou, che parlano un buon italiano. Sono in apprensione a lasciare l’appartamento però non posso pensare di mettere le radici qui dentro. A un certo punto dovrò ben rinunciare al proposito di continuare a ripetere le stesse cose ossessivamente e iniziare a riconoscere che è un problema mio quello di credere che non possano farcela quando invece hanno capito perfettamente. hanno capito.
– Quando venite qui a mangiare tu e Luis?
Mi dice Amara e, in effetti, ricordo che lo avevamo promesso al nostro primo incontro.
– Non so. Luis non mi ha più detto nulla. Appena riusciamo, ok?
E in effetti è vero. In ogni caso magari aspetterei un attimo vista la situazione. Va bene che non c’è rischio di infettività ma non si sa mai, e non voglio nemmeno andarmela a cercare.
Li saluto e torno a casa in un misto di agitazione e di sollievo per il successivo giorno di festa.
Finalmente riesco a passare l’Epifania a casa senza dover stare chiuso dentro a un teatro a fare montaggio, spettacoli, guidare, caricare, scaricare. Per la prima volta in tre anni posso mangiare al ristorante con la mia famiglia e la mia fidanzata. Mi godo la tranquillità, il cibo e il vino senza troppe preoccupazioni. Al termine del pasto recupero la giacca e controllo il cellulare di lavoro rimasto nella tasca. Mi è stato consigliato di avere due numeri, il mio personale da usare con i colleghi e un altro con una precisa compagnia telefonica che usano tutti i richiedenti asilo perché non si pagano le chiamate e i messaggi. Guardo lo schermo e sbianco: due chiamate di Demba.
Esco subito dal ristorante per richiamarlo mentre tragedie inenarrabili si materializzano nella mia mente. Fuori fa freddo e il cielo grigio si impasta con il grigiore della città.
Mi risponde. É vivo. Mi tranquillizzo.
– Ciao Demba, ho visto le chiamate. Che succede?
– Ciao Emilio, io freddo, vuole giacca.
– Si Demba, tranquillo. Andiamo la prossima settimana insieme a Luis con tutti voi. Ciao!
– Ciao.
Metto giù e controllo che la conversazione sia conclusa.
– Ma vaffanculo!
Lunedì mattina, appuntamento alle 9 con due appartamenti di Cerreto, davanti alla stazione dei treni della città. Alle 8:45 Ezekiel chiama per informarmi che sono già arrivati. Alle 8:50 chiama Justice per ribadire lo stesso concetto. Smetto di rispondere al telefono e lo lascio suonare fino a che non arrivo sul posto. Arrivo con la mia macchina perché dovrò fare diversi trasporti, i ragazzi sono già arrivati da Cerreto con l’autobus.
Provano a lamentarsi ma metto subito in chiaro che non ne hanno alcun motivo perché sono arrivato puntuale e la polemica si esaurisce quasi subito per spostarsi sul freddo. Siamo in pieno inverno e nonostante la luce di un tenue sole fuori stagione, la temperatura è veramente insopportabile e pungente. Motivo per cui parte un continuo e imperterrito piagnisteo sul fatto che faccia freddo, che cerco di affrontare con un minimo di comprensione pensando che vengono da posti più caldi ma, sotto sotto, lo sento molto come un pretesto per rompere i coglioni. Sembra che si mettano d’accordo nel ripetere le stesse cose in maniera martellante e incessante, ma in questo caso è Nosa a distinguersi per l’insistenza.
Veniamo raggiunti da Margherita che si trovava poco lontana da dove mi sono incontrato con i ragazzi di Cerreto. Dobbiamo aspettare Luis perché è lui che ha i voucher del negozio in cui dobbiamo accompagnarli a prendere i vestiti. Sarebbero dovuti arrivare anche Gueida ed Eugenio ad aiutare, ma Margherita mi ha detto che alla fine non ce la fanno a passare, e quindi saremo solo noi tre. Mi chiedo a cosa serva accompagnarli, come se non fossero in grado di comprarsi dei vestiti da soli, ma in realtà è Margherita a spiegarmi che è stato il negozio stesso a richiedere la presenza degli accompagnatori perché il gruppo di richiedenti asilo può spaventare i clienti e creare confusione. Il tempo passa e Luis non si fa vedere, siamo già sui quarantacinque minuti di ritardo ma per telefono ci assicura che sta arrivando. Justice e Nosa tornano alla carica con il sostegno di Ezekiel e Willy, li rassicuro che a breve saremo partiti e che anche io sto patendo il freddo esattamente come loro. Inizio a sentirmi particolarmente nervoso, sia per le lamentele che per il ritardo.
Alla fine, Luis arriva due ore dopo con un’aria serafica, come se nulla fosse accaduto e in pratica ci dice che non c’è motivo di essere infastiditi. Margherita mentre andiamo a recuperare le auto esterna giustamente tutto il malcontento:
– Come puoi pensare di pretendere puntualità dai ragazzi quando gli operatori sono i primi a fare quello che gli pare? Che esempio diamo?
Annuisco ma dentro sono furente, mi sono sorbito due ore di sfoghi, e adesso tutti i gruppi programmati si sovrapporranno in un caos senza fine. Per di più il programma della mattinata era stato deciso proprio da Luis, che aveva raccomandato a tutti la massima puntualità.
Finalmente partiamo e arriviamo con il primo gruppo al negozio. Diamo una breve spiegazione ai ragazzi: l’indicazione è quella di acquistare esclusivamente vestiti invernali e utili, non scarpe da calcio o cappellini.Il limite di spesa è di 50 euro.
Dopo la prima ricognizione tra gli scaffali parte la seconda ondata di lamentele. In questo caso è Ezekiel a discutere con Luis perché si rende conto che con quella cifra è veramente difficile riuscire a comprare qualcosa o, almeno, è difficile riuscire a prendere qualcosa di bello e alla moda come vorrebbe lui, gli rinfaccia Luis. Casualmente assisto alla discussione e mi sento combattuto. L’atteggiamento di pretesa che avanza Ezekiel mi indispone profondamente ma dall’altra parte non posso che convenire sulla difficoltà di riuscire a comprare qualcosa con quella cifra. Il materiale in vendita in questo posto è di tipo tecnico e sportivo quindi il rapporto qualità prezzo è molto alto e permette anche di comprare più cose dalla buona resa ma, in effetti, è il genere di indumenti che si usano per stare in casa.
Dall’altra parte a me nessuno regala dei soldi per comprarmi qualcosa e, fossero anche cinquanta euro, sarei ben contento di spenderli senza aprire il portafoglio e mi guarderei bene dal lamentarmi. Non so come uscirne. Sento che qualcosa sembra non tornare. La percezione del sentirsi in abiti dignitosi è molto soggettiva e dall’altra parte non mi è chiaro a cosa abbiano effettivamente diritto (in senso letterale, ovvero quali siano le disposizioni del Governo nel merito) e nemmeno di cosa abbiano realmente necessità. Luis mi spiega che mentre alcuni non hanno veramente nulla e non provano nemmeno a chiedere, altri sono strapieni di vestiti e continuano a chiedere. Accumulano qualunque cosa anche se non ne hanno realmente bisogno. Mi chiedo se non sia una conseguenza dell’avere avuto poco o il tentativo di raggiungere e adeguarsi a uno standard, un modello proposto a cui ci si vuole uniformare, reale o ideale che possa essere. Il nostro stile di vita è effettivamente quello consumistico in cui i vestiti e i beni in generale dicono chi sei o chi vorresti essere. Inoltre, quello che mi è capitato di osservare nei diversi viaggi di lavoro all’estero, è che gli immigrati non sono ché lo specchio della popolazione a cui si vanno a mescolare.
Siamo in attesa nei pressi della cassa e, tra i tanti, arriva anche Demba che si presenta senza una giacca invernale ma con una tuta di marca e per giunta primaverile, leggerissima. Cerchiamo di dissuaderlo aiutati da un ragazzo suo amico che aveva appena comprato un solo giaccone nero iperimbottito, ma non c’è verso di fargli cambiare idea. Demba è irremovibile e fermo nella sua posizione. L’indicazione tra operatori era quella di impedire gli acquisti inutili ma in questo caso è Luis che interviene e consente il pagamento. Ripenso alla telefonata che mi ha quasi infartuato ma scelgo di sorridere pensando all’ironia di quanto accaduto e guardarne il lato comico.
A mano a mano che i ragazzi finiscono di pagare, qualcuno di noi li carica sulla propria macchina e li riporta in stazione. Una spola continua.
Intorno alle 3 del pomeriggio riusciamo a finire. Margherita è andata via e si sono alternati altri due operatori nella mattinata, ma ora siamo rimasti solo io e Luis. Il bilancio è comunque positivo, nessun problema, qualche incomprensione ma nulla di tragico o insanabile. Nei prossimi giorni ci saranno altri colleghi a occuparsene. Si tratta di muovere più di duecento persone.
Dei miei appartamenti tutti hanno preso qualcosa, tranne Kolo. È arrivato tra i primi gruppi e si è aggirato per gli scaffali smarrito. Occhi sbarrati, sguardo assente e andatura claudicante, non è stato in grado di decidere. Luis mi confida che la sua storia è piuttosto difficile e pare abbia subìto diverse violenze quindi mi suggerisce di seguirlo maggiormente visto che è anche molto isolato rispetto agli ospiti con cui vive, Bakaré e gli altri. É anche uno dei pochi che fino a quel mo45
mento non ha ancora fatto lavoro volontario o altre attività pur essendo molto vicino alla data di commissione. Questo genere di attività solitamente aiuta ad avere un responso positivo perché indicatori di integrazione. Lo riportiamo indietro ma ci mettiamo d’accordo per farlo tornare in un secondo momento.
Oggi non sono nervoso, di più. Intanto perché per poter essere a Cerreto alle 8 mi sono dovuto svegliare alle 6:30 del mattino. In secondo luogo, perché è un’ora che aspetto il tecnico della caldaia il quale, per telefono, mi aveva raccomandato di essere puntuale, altrimenti in caso di mia assenza se ne sarebbe andato senza fare nulla. In terzo luogo perché è da due settimane che chiamo per avere questo appuntamento visto che in due appartamenti non va il riscaldamento, e casualmente sono proprio quelli dei più rompiscatole in assoluto.
I ragazzi mi stanno mettendo in croce con estenuanti lamentele a ogni mio passaggio, in aggiunta ovviamente a continue telefonate durante la giornata. Sono stanco di litigare con loro cercando di tenerli calmi mentre dall’altra parte qualcuno se la prende comoda. Non dovrei nemmeno essere io a occuparmi di manutenzioni e logistica. Non ho alcun potere decisionale, se il tecnico mi proponesse una cifra non potrei che sorridere come un ebete e rimandare a chi di competenza con ulteriori perdite di tempo che mi porterebbero ad altre discussioni infinite. In più non ho la minima idea di come funzioni l’impianto e di dove si trovino le varie componenti.
Luis dovrebbe seguire queste operazioni ma non riesco a capire se è veramente troppo impegnato come dice o se riesce a schivare gli impegni come un’anguilla. Quando passo in ufficio lo trovo sempre impegnato a fare spuntini e merende. Sarà anche una casualità ma non mi sembra si affanni per lavorare.
Chiamo la ditta un paio di volte e finalmente arrivano i tecnici che, ovviamente, mi chiedono dettagli a cui non so dare risposte, ma sembrano piuttosto direzionati sulla causa del problema e vanno a lavorare nel sottotetto. Vogliono espressamente che ci sia io ad accompagnarli, in particolare un tipo rossiccio sovrappeso. Ci tiene a precisare che con i rifugiati non vuole neanche parlare e intende fare in fretta perché non li sopporta.
Venti minuti d’orologio, mi garantiscono che sarebbe andato tutto a posto entro la mattinata e se ne vanno. Non si risolve niente, ripartono le discussioni.
Trascorro la mattinata a Cerreto e raccolgo, oltre alla questione del riscaldamento, altre segnalazioni di manutenzioni necessarie: diverse persiane bloccate o mancanti, vetri rotti, prese staccate dal muro, cavi elettrici scoperti, lavandini che perdono, vasche intasate e muri rotti, tutte cose che riporto a Luis, il quale dovrebbe organizzare i lavori di manutenzione. Gli chiedo di prendersi in carico la gestione della riparazione dell’impianto perché io non ho alcun potere decisionale, ma sembra intenzionato a delegare comunque a me.
Negli appartamenti di Ezekiel e Justice le lamentele nei confronti di Luis si sprecano. Non si fidano di lui e inizio a domandarmi se non ci sia un fondo di verità ma non voglio mettere in dubbio le persone. Capisco che non ci possa essere risposta immediata ai problemi e che certe questioni richiedano tempi a volte anche lunghi, ma ho la sensazione che Luis sottovaluti alcune questioni più di altre.
La giornata si conclude nell’appartamento di Diawandou e Bakaré. Quando entro non li trovo davanti alla play station ma insieme a un loro amico a giocare a dama. O, almeno, sembra. La scacchiera c’è ma le pedine sono miste, alcune sono prese dalla dama, altre dagli scacchi, alcune sono dei tappi di bottiglia. Diawandou mi invita a giocare con lui e accetto.
Chiedo solo di essere pazienti perché non ricordo assolutamente più le regole. Infatti, sono lui stesso o Bakaré a suggerire le mosse e le occasioni in cui devo mangiare le pedine dell’avversario. A un certo punto riusciamo tutti e due a fare una dama che, per qualche strana ragione, perdiamo subito entrambi, mangiata da una pedina semplice. Ho la sensazione che le regole siano decisamente arbitrarie, ma perlomeno ci sono, nel senso che valgono per entrambi. Alla fine perdo, ma chiedo una rivincita a un gioco di carte per la prossima volta.
Diawandou sorride.
Sto entrando nella routine del lavoro. Passaggi negli appartamenti, compilo la spesa, ricordo i vari appuntamenti scolastici, legali, sanitari via telefono, accompagno, giro, mi muovo, mi organizzo, riorganizzo ogni volta gli impegni per far fronte ai continui imprevisti. Cerco di trovare l’incastro per la mia vita personale: leggere, allenarmi la sera con i pesi, studiare, scrivere, fare foto, vedere la fidanzata. Non mi sento stanco ma so che per un certo periodo sarà veramente dura visto che, oltre a questo lavoro, avrò in contemporanea l’impegno con il teatro che mi porterà via ancora alcune giornate, peraltro pure all’estero. Ci sarebbero poi anche la scuola di specializzazione, il tirocinio e l’altro lavoro ancora in primavera, come tecnico in un evento musicale, i sabati e le domeniche. In tutto questo mi piacerebbe trovare il tempo per riposarmi.
Raramente passo in ufficio se non per la riunione settimanale obbligatoria, che è più un’occasione per stare con i colleghi e confrontarsi, che per avere qualche spunto interessante. Solitamente per un paio di ore sento solo una serie di comunicazioni che avrei tranquillamente potuto ricevere via mail. Diventa davvero utile solo quando arriva il momento di suggerire il nome di qualche ragazzo per il lavoro volontario o simili.
Negli appartamenti trascorro parecchio tempo se non sono impegnato a sbrigare diverse commissioni. I nigeriani sono i primi da cui passo perché ogni volta spendo almeno un’ora in questioni e lamentele di vario tipo. Sono arrabbiati perché non ricevono il Pocket Money ormai da due mesi e quindi non fanno altro che chiedere quando arriverà e perché non arriva. Cerco di tranquillizzarli e allo stesso tempo di raccogliere le segnalazioni veramente utili, tipo sui lavori da fare, le necessità, ma parlano tutti contemporaneamente e dopo un po’ non si capisce più niente.
Negli altri appartamenti la situazione è simile, c’è molto malcontento per il ritardo ma sono più tranquilli. Sto spesso nell’appartamento di Didier. Insieme a lui e a Bakari, del Mali, ogni tanto provo a leggere il giornale e a passare del tempo con loro. Mentre siamo seduti con i quotidiani sulla tavola, Bakari prepara il tè del deserto, che è davvero ottimo. Mi affascina vedere quanti travasi faccia dalla teiera al bicchiere, è un’operazione semplice ma suggestiva rispetto alla modalità con cui sono solito fare io il tè. Nulla più che infilare una bustina dentro a una tazza piena di acqua calda.
Bakari è molto pacifico e garbato, chiede spesso se è arrivato il risultato della sua commissione quando mi vede, ma non chiama mai sul telefono. È in attesa da diversi mesi come molti altri a Cerreto. L’iter che devono seguire inizia a divenirmi più chiaro.
Da quando arrivano trascorre un lasso di tempo che solitamente si aggira tra i diciotto mesi e i due anni, al termine del quale vengono chiamati a presentarsi di fronte a una commissione che prende in esame le singole richieste di asilo politico per verificare se ci siano o meno le condizioni per il riconoscimento di uno dei tre tipi di protezione. Solitamente la convocazione è successiva al quarto rinnovo del permesso di soggiorno che avviene ogni sei mesi. Alla commissione l’esito è spesso negativo e quindi si passa al ricorso in cui solitamente il caso viene valutato dal tribunale con maggiore attenzione e con maggiori possibilità di esito positivo. Tuttavia, non è un fatto automatico e dipende da molti fattori, nello specifico dal livello di integrazione della persona e dalla coerenza della storia personale.
Come Bakari molti sono in attesa dell’esito del ricorso, altri invece aspettano di potersi presentare in commissione. Amara sono diversi mesi che sta ancora aspettando una risposta al suo ricorso.
Ogni tanto qui trovo anche Mahamet. Non parla tanto ma lo trovo a leggere libri in italiano. So che ha fatto le medie iscrivendosi in autonomia e so anche che un’operatrice che li aveva seguiti per un breve periodo aveva avuto problemi con lui perché era molto oppositivo, anche se fino a ora non mi ha dato nessun problema.
Finalmente arriva il Pocket Money e devo andarlo a consegnare. Ho avvertito tutti gli appartamenti che sarei passato dopo le 3:30 perché sapevo di avere diverse cosa da fare prima. Sono andato a recuperare i soldi in ufficio e ora ho tutto dentro a uno zaino. Non sono proprio tranquillo. Si tratta di 2,50 euro al giorno per un mese da consegnare a più di trenta persone e, oltre ad avere paura che qualcuno possa farmi del male, in caso di perdita ne sarei responsabile perché non ho alcuna indennità. Tutto questo non mi sembra particolarmente corretto per come che veniamo pagati, ma al momento non ho grandi alternative.
Sto guidando e cerco di non pensare ai potenziali rischi che sto correndo, quando realizzo di essere ancora in città e di non aver ricevuto nessuna telefonata. Provo un certo compiacimento e anche un certo stupore. Proprio due giorni prima mi aveva chiamato Francis alle 11:30 di sera, mentre mi ero appisolato sul divano davanti a un film, per dirmi che la sua tessera sanitaria era scaduta. Ancora mi stupisco di essere riuscito a trattenermi dal mandarlo a fare in culo visto che non era nemmeno il primo che mi chiamava la notte per questioni che si possono risolvere tranquillamente in altri momenti. Eppure, ho già specificato innumerevoli volte che il telefono è solo per le comunicazioni importanti o per le emergenze. Che poi, anche questo punto delle emergenze, è piuttosto fumoso. Nonostante abbia cercato più volte di approfondirlo con i responsabili non ho mai ricevuto risposte esaurienti. Di notte, per esempio, non è chiaro cosa debba fare e se sia responsabilità mia o meno intervenire in caso di emergenza fuori dal mio ipotetico orario di lavoro. Peraltro non dovrei nemmeno averne uno a cui attenermi, anche se insistono a chiedere la firma delle ore. O almeno, «valuta tu» non la ritengo una risposta soddisfacente rispetto a come dovrei comportarmi.
Suona il telefono che uso per i ragazzi. Ho parlato troppo presto. Guardo l’ora, sono le 15:35. È Justice, rifiuto la chiamata. Richiama altre sei volte. Ezekiel chiama tre volte. Poi è la volta di Willy. Johnny chiama cinque volte. Amara chiama una volta, come Alou, Francis, Nosa, Bakaré. Spengo il telefono per evitare di lanciarlo fuori dal finestrino. Suona il mio telefono personale. È Luis. Rispondo, magari è importante.
– Ciao Emilio, hai consegnato il Pocket Money? Sono con Alou e continua a chiedere quando arrivano i soldi…
Cristo santo! Erano pronti stamattina, datemi almeno il tempo di preparare tutti i maledetti fogli che devono firmare!
– Ciao, sto andando ora a Cerreto.
Taglio la conversazione.
Arrivo davanti alla palazzina e riaccendo il telefono di lavoro. Iniziano ad arrivare una sequela di notifiche di chiamate senza fine e quindi lo spengo di nuovo. Consegnare del denaro è un’operazione da fare con attenzione per evitare cazzate.
Parto dal basso verso l’alto e passo in tutti gli appartamenti fino ad arrivare all’ultimo, quello di Ezekiel. Il copione è uguale in tutte le abitazioni: si discute sugli orari e sul mio presunto ritardo, ma poi tutti desistono a breve, perché vogliono avere i soldi Tutto fila senza problemi fino a quando non tocca all’ultimo ragazzo, Jonathan, e mi accorgo di avere 10 euro in meno. Merda. Dalla contabilità hanno sbagliato a preparare le buste con i soldi. Vedo la faccia di Jonathan cambiare espressione e assumere un’aria di sfida, quando gli dico che deve esserci stato un errore e che non ho la cifra per lui. Sono imbarazzato e anche in difficoltà.
Ezekiel interviene e ci mette subito un bel carico.
– Non è giusto, eh. Perché?
– Devono aver fatto un errore. Li recupero e domani li porto.
– E lui perché dovrebbe aspettare e rimanere senza? Anticipali tu e fatteli dare.
Figurati se ci metto i miei soldi che poi, come minimo, non li rivedo più.
Non so cosa fare. Ezekiel insiste che ce li metta io mentre Jonathan non parla, gioca con lo stuzzicadenti in bocca senza dire nulla. Mi chiedo come fare a districarmi mentre cerco mentalmente di trovare rapidamente una soluzione per uscire da quella situazione scomoda. Chiamo Elena per sapere cosa fare ma appena risponde capisco cosa è successo. Le chiedo scusa per il disturbo, la saluto e metto giù. Sono io che ho fatto un errore. Dico a Jonathan di aspettare e scendo fino al pianerottolo di Kalidou.
Luis mi aveva spiegato che viene data ai ragazzi una cifra per ogni giorno trascorso in associazione, e Kalidou è arrivato da poco, quindi a lui spettano meno soldi. Entro e cerco di spiegare cosa è successo per farmi ridare indietro la parte in più che gli avevo erroneamente consegnato, ma capisco che non sarà per nulla facile. Una volta ricevuto qualcosa è difficile che lo si possa riprendere indietro. Mi scuso ma lui non è convinto e non vuole darmeli. Gli mostro il foglio con le ricevute per fargli vedere l’errore ma non riesco a fare presa. Intervengono gli altri, cercano di spiegargli ma lui sembra tutt’altro che convinto: si gira verso di me e mi dice che mi ridarà i soldi se prometto di aiutarlo con la scuola. Non amo i ricatti ma questa non è nemmeno una richiesta delle peggiori, anzi è una richiesta sensata.
Ritorno da Jonathan per consegnargli finalmente la cifra intera dopodiché inizio a mettere via tutti i fogli e le ricevute ma Ezekiel interviene di nuovo.
– Ehi! Guarda che lui non ha firmato, eh!
– Hai ragione.
Porgo allora il foglio a Jonathan che commenta in un tono che percepisco essere sprezzante nei miei confronti senza avere modo di comprenderne le parole. Lascio correre perché ora è il senso di sollievo a farla da padrone. Jonathan se ne va nella sua stanza mentre rimango solo con Ezekiel.
– Grazie dell’aiuto.
Dico prima di andarmene. Sono sfinito.