Scisma – Prologo
Ecco il primo capitolo del romanzo Scisma di Marco Becchetti!
Puoi sostenere questo progetto fino a mercoledì 20 novembre!
Inserisci il prodotto nel carrello e completa l’ordine come per un normale acquisto. L’importo del libro verrà addebitato soltanto alla fine della campagna se sarà raggiunto l’obiettivo di copie per la pubblicazione.
Prologo
Per effetto della natura la sveglia che ne regola la nascita, la crescita e lo scorrere risuona. L’inesorabile e puntuale trillo di opachi raggi rischiara una ridente cittadina che si sta faticosamente risvegliando sormontata da decine di centimetri di neve caduta durante un’interminabile notte.
In questo morto paesaggio i tiepidi raggi solari delle prime ore di luce del periodo più duro d’una stagione invernale glaciale arrivando lentamente in un’abitazione nella zona periferica paiono portatori d’un tepore quasi sconosciuto: filtrano dagli spessi vetri trasformandosi nel tragitto di miliardi di chilometri in uno squarcio dalla forma irregolare che conclude il viaggio di quella mattina posandosi col suo dolce tocco sulla ruvida coperta rigonfia d’un placido corpo umano addormentato, che, gradualmente solleticato dal calore prodotto, si desta.
Rigirandosi su un fianco, senza aprire gli occhi, l’uomo tasta bramosamente il velluto morbido dell’altro lato del letto dove non c’è nulla. Accarezzando le lenzuola focalizza un tempo in cui quella zona era calda per la presenza di quella donna il cui semplice ricordo basta per scaturire nella sua mente il volto del fantasma che anche nella sua assenza fisica gli appare così vivido tanto da poterne annusare il profumo.
Formula dentro di sé la domanda senza neanche pensarla: «Che ore sono?», e muovendo vorticosamente il collo cerca di afferrare con gli occhi un orologio che possa dargli risposta, dapprima scruta in alto, invano; senza ancora pensare, inconsapevolmente, si ricorda di averne uno al polso, le lancette di quello gli fanno segno che è presto.
«Sono le sei…», e dicendolo l’intonazione è priva di scoperta come se fosse uno spettatore in platea nell’esatto puntuale secondo fissato per assistere ad un qualche spettacolo.
Un pensiero ricorrente quello dell’ora come se il tempo fosse già stato vissuto e tornasse a ripetersi nuovamente daccapo ancora una volta. Le sei, come mille altre sei, milioni di altri sei che pensava di ricordare come se si trovasse in un cerchio o in una concentrica spirale che non facesse che ripetere sé stessa.
Non ancora completamente sveglio l’uomo rimane sovrappensiero sdraiato sul bordo del letto con la testa poggiata sul cuscino in un lieve stato d’incoscienza venendo assalito da miliardi di assurdi pensieri senza capo nè coda che come milioni di insetti microscopici egli non distingue l’uno dall’altro, e quelli lo pizzicano ripetutamente offuscandogli la mente con vaghi frammenti di idee; subendoli passivamente senza opposizione come gli accadeva alle volte al mattino al risveglio da un po’ di tempo a questa parte. Quand’ecco che uno di essi lo punge con maggiore forza, imprimendogli un pensiero più netto dei precedenti.
Così, dieci minuti dopo la sveglia, in fretta si scaglia fuori dal letto e prepara il caffè. Nell’accingersi a berlo gli aromi caldi del liquido nero e profondo dalla tazza risalgono al suo naso, stuzzicando le mucose e la gola che pregustano il sapore rinvigoritore. La bevanda gli scivola come miele nel corpo, riscaldandolo dentro, scuotendolo dal sonno non smaltito e impossessandolo dell’energia necessaria a vestirsi con i pochi indumenti rimasti da mesi sparsi qua e là lungo tutta l’ampiezza della casa. A casaccio nella polvere li cerca e scarta uno a uno prima di trovarli esattamente dove li aveva lasciati il giorno che si era deciso a partire. Nella confusione a prova dell’esistenza del suo tormento ritrova il simbolo donatole quando era giunto il momento di coronare quelli che, aveva sentito dire in giro, venivano chiamati sei anni indimenticabili. Prima che accadde quello che non aveva sospetto o timore potesse accadere. Di corsa se ne andò e non disse una parola su quello che egli oggi come allora nemmeno sapeva fosse il motivo, seppe solamente che una mattina restò solo per la prima volta non sapendo che non sapeva far nulla, capace solo di mangiare, dormire e poco altro, in quella casa in cui la mancanza di quella famiglia che era adibita a contenere si ripercuote sulla consistenza stessa della casa che progressivamente si sgretola sotto i suoi occhi, non potendolo impedire perché non fondata o sorretta dalle mura fisiche che la compongono ma costruita e alimentata dal calore e l’affetto di cui è stata privata. E qui ora che si prepara a partire, al cospetto dell’assenza e desolazione che si è impadronita della casa vuota di cui nessuno si occupa, contempla il vuoto lasciato dalla sua fuga, faccia a faccia con la mancanza di quello che dovrebbe esserci, di quei suoni familiari che sono scomparsi lasciando il vuoto riempito da mille nuovi rumori che prima faticava persino a distinguere soffocati sotto il marasma delle risa di gioia, dei rimproveri, e che nel silenzio s’amplificano e assumono proporzioni gigantesche rispetto alla loro reale dimensione – i suoni e i rumori una volta familiari delle tenere fievoli piccole figure concepite anche con il suo intervento che la madre ha portato via con sé sostituiti dal rollio dell’acqua, dallo scricchiolio delle sedie, dal fruscio e movimento stesso della polvere. Eppure in fondo allo spiacevole e progressivo sgretolamento di quello che ha costruito con fatica egli trova sollievo perché sente che in qualche ineluttabile modo questa fosse l’unica maniera in cui potesse concludersi la questione; che l’unica soluzione comportasse in qualche modo quella rovina, ed egli non sa se si rammarica di quello che sta marcendo sotto ai suoi piedi o se quello che lo infastidisce sia l’inopportuna successione degli eventi imprevisti.
Nel procinto di abbandonare definitivamente quella dimora intuisce le ragioni della scomparsa di sua moglie – che in qualche modo ella fosse venuta a conoscenza delle sue intenzioni e della sua reale natura – e rinvigorito da questa nuova prospettiva con impagabile compiacimento si dirige con glaciale determinazione verso la conclusione di tutta la storia comprendendo d’essere giunto all’arrivo del momento tanto agognato, di quel lampante attimo chiarificatore che lo libererà finalmente dalle catene della finzione. Dalle ampie vetrate nel salone osserva il panorama prima della partenza. La neve precipitata ha mescolato il suo neutro manto bianco insieme ai colori vivaci degli oggetti cui è venuta a contatto posandovisi sopra; ha depositato il suo vello gelido sopra qualunque cosa abbia sfiorato tramite l’aiuto di piccole tormente e raffiche di vento impressionanti che hanno ricoperto indistintamente anche le zone sfuggite all’impatto della prima nevicata procurando così ulteriori danni alla viabilità. I suoi segni sono riscontrabili ovunque: nei piatti, regolari tetti delle costruzioni pubbliche e private, nella splendida vegetazione del parco comunale tra cui taluni coraggiosamente, sfidando il gelo, corrono pestando accidentalmente nella disordinata falcata le multicolori livree di fiori e piante sofferenti in silenzio sotto le spesse coltri bianche che li nascondono, e nelle innaturali, sfavillanti carrozzerie metallizzate di vetture fatte prigioniere sotto un unico monotematico pallido colore. Le stesse vetture – da quelle in stasi in sovraffollati parcheggi all’aperto e agli angoli delle strade, per finire con quelle in letargo e coperte al caldo in dimenticati garage – si spostano, di quando in quando, dalla loro immobilità, aumentando di numero e d’intensità con il trascorrere del tempo lungo le affollate strade in cui transitano in un crescente andi-rivieni con sempre più regolare frequenza, lasciando intravedere dagli appannati finestrini i visi smunti dei loro guidatori imprecare per le indigeste condizioni in cui sono costretti a transitare. File di vuoti e spenti lampioni costeggiano i marciapiedi ai cui bordi è stata spalata la neve in eccesso divenuta una vomitevole poltiglia grigio-nero minimamente assomigliante al suo aspetto originario, di ritorno, quella sopravvissuta alle pulizie stride nell’attrito con le catene di ferro montate sulla ruvida consistenza dei pneumatici delle vetture descritte poc’anzi, costrette a incedere goffamente con passo moderato nel loro non abituale terreno, indecise come bimbi che camminino per la prima volta con le gambe dritte quando ancora stando in piedi tentennano e barcollano a ogni passo come fanno loro a ogni metro mentre dai tubi di scarico espellono getti di velenoso gas che si diffondono nella rarefatta aria mattutina.