fbpx

Al banchetto di Federico II di Svevia

Dal primo capitolo di I corzetti – Storie di donne, cibi e territori di Chiara Parente (edizioni Epoké, 2024)

Ha tutto inizio da un manoscritto. S’intitola Liber de coquina, il Libro sulla cucina, forse con un’allusione al manoscritto arabo Kitāb al-Ṭabīḫ. Lo scrisse negli anni compresi tra il 1240 e il 1250 uno chef geniale ed eclettico, che spaziava con la mente e la cucina fra le culture gastronomiche di due mondi differenti, ma complementari: quello francese e quello arabo. Non ne conosciamo il nome, ma sappiamo quasi per certo che lavorava alla corte pugliese-palermitana di Federico II di Svevia.

È dai fogli ingialliti di questo codex latino, considerato uno dei capisaldi della gastronomia dell’Occidente cristiano, che emerge probabilmente la prima ricetta dei crosetis, una pasta, forse introdotta nel Sud d’Italia dagli stessi Angioini, allora anche Conti di Provenza.

Tutto qui? No.

Seguendo le tracce del codice penetriamo nell’ambiente fisico e culturale della Sicilia nella metà del XIII secolo, una regione ricca e rigogliosa governata da Federico II di Svevia, in quei decenni all’apice della sua potenza.

Il monarca, accompagnato dalla sua corte itinerante e cosmopolita, ama spostarsi. Viaggia di continuo in lungo e in largo nel Meridione della Penisola per visitare, conoscere e difendere i propri possedimenti, scoprendone la cultura, compresa quella alimentare.

Allontanati gli arabi, Federico II s’impegna nel ripopolare le terre lasciate semideserte o del tutto abbandonate, favorendo l’afflusso di genti provenienti dal Nord d’Italia. Si contano a centinaia gli uomini, le donne e i bambini che, spinti dal sogno di una vita migliore, lasciano le brume della Pianura Padana per il caldo sole della Trinacria. Finanzia la costruzione di nuovi luoghi di culto e converte i vecchi edifici religiosi musulmani in chiese cristiane cattoliche. Innalza castelli, che pian piano si diffondono a macchia d’olio, sino a divenire il leitmotiv dei paesaggi di Puglia e Basilicata.

La splendida capitale del suo regno, Palermo, completamente in bilico tra Oriente e Occidente, farebbe invidia a chiunque. “La città che fa girare il cervello a chi la guarda”, così la definisce, nel Libro di Ruggero, il geografo arabo Al-Idrisi. Federico II risiede nel Palazzo Reale. Un’architettura monumentale impreziosita da una grande aula porticata circondata da giardini, una meravigliosa cappella decorata con mosaici policromi risplendenti di luce e una via coperta che si prolunga alla fastosa cattedrale, somigliante alla Mezquita Catedral di Cordoba in Andalusia, a suo pari eretta tempo addietro dagli arabi musulmani.

Federico II, lo “stupor mundi”, lo stupore del mondo per i suoi contemporanei, però, non è soltanto un accorto e abile sovrano.

Colto e appassionato di letteratura, è un uomo dotato di un’inesauribile curiosità intellettuale.

I suoi svaghi sono la caccia con il falcone e i banchetti. Alla sua tavola invita i dotti dell’epoca. Eminenti studiosi, ecclesiastici e uomini politici inglesi siedono accanto a eruditi greci, arabi e francesi e ad avvocati e notai siciliani, impiegati come funzionari nella Magna Curia di Palermo.

I nomi di questi ultimi ci riportano ai tempi della scuola. Jacopo da Lentini da secoli si interfaccia con i malcapitati studenti italiani (e non solo) per aver inventato la forma metrica del sonetto.

Schiere di allievi ricordano Pier delle Vigne come colui che, costretto da Dante a vagare per la selva dei suicidi descritta nel XIII canto dell’Inferno, sconta la pena di tradimento nei confronti dell’imperatore. Associamo Cielo d’Alcamo, anch’egli citato da Dante, ma questa volta nel De vulgari eloquentia, alla poesia Rosa fresca aulentissima, uno dei primi mimi giullareschi in volgare siciliano, destinato alla rappresentazione scenica.

A questi tre scrittori e ad altri ancora spetta il merito di aver creato la scuola poetica siciliana, ovvero aver gettato le basi della cultura letteraria italiana. Fu Federico II a volerlo. Voleva che il suo regno avesse una lingua colta, spuria, tutta sua, priva delle influenze linguistiche dettate dai trovatori provenzali migrati in Italia.

Cosa c’entra in tutto ciò la cucina? Federico II era un salutista e nei suoi lauti banchetti le portate servite erano ben congegnate. Che pensare, un buongustaio ante litteram con il pallino della dietetica? Fatto sta che fu lui a favorire l’antica e prestigiosa Scuola Medica Salernitana, incentivandone, attraverso la mediazione araba, la ripresa e lo sviluppo del sapere scientifico dei medici greci Ippocrate e Galeno. Il primo considerava l’alimentazione parte integrante degli studi e delle regole di salute, il secondo era suo discepolo.

Se per Federico II era importante l’unione di dietetica e alimentazione, allora occorrevano manuali di cucina moderni e al passo con le mode culinarie.

Fu questo, probabilmente, il pensiero alla base della stesura del Liber de coquina. Con tali premesse, è facile supporre che l’illuminato sovrano desiderasse lasciare il suo regale segno distintivo anche nella storia della gastronomia, plasmando la prima cucina italiana.

Fedele alle contaminazioni non solo linguistiche, ma anche gastronomiche, Federico II realizzò una fusion tra le culture culinarie delle tre civiltà affacciate sul Mediterraneo: normanna, araba e greco-latina. Chissà se l’idea di scrivere il Liber de coquina appartiene a lui o a un geniale cuoco di sua fiducia.

Per ora non siamo ancora in grado di rispondere. Certo è che chi scrisse quest’ambizioso ricettario internazionale, ritenuto una specie di enciclopedia gastronomica basata sulla semplicità dei prodotti (verdure, carni, pesci, uova) e indirizzata a persone ricche e golose, ebbe campo libero. Una totale autonomia sembra governare sulla scelta delle ricette e sulla loro descrizione. Non stentiamo a immaginare esimi cuochi al servizio di facoltose famiglie servirsi del manuale, esposto in bella mostra nelle biblioteche dei palazzi.

Nel leggere le ricette, gli chef sceglievano per gli illustri commensali preparazioni belle da vedere e buone da gustare, soddisfacenti per la salute, adeguate alle stagioni, al calendario ecclesiale (carne o pesce) e alle circostanze del quotidiano o del festivo.

Nel Liber de coquina la ricetta dei crosetis è trascritta insieme a quella delle lasagne.

Per fare le lasagne, prendi della pasta fermentata e fai una sfoglia il più sottile possibile. Dividila quindi in quadrati di tre dita di lato. Prendi poi dell’acqua bollente salata e facci cuocere le suddette lasagne. E quando saranno cotte bene, aggiungi del formaggio grattugiato.

E, se vuoi, puoi mettere anche delle buone spezie in polvere, e spolverarle sopra di esse dopo che le avrai messe su un tagliere. Poi stendivi sopra un altro strato di lasagne e spolvera ancora [con le spezie]; e, sopra, un altro strato e spolvera [con le spezie]; e ciò finché il tagliere o la scodella non siano pieni. Poi si mangiano prendendoli con un bastoncino di legno appuntito.

Allo stesso modo si preparano i croseti e con la stessa pasta, se non che sono confezionati rotondi e lunghi un pollice e con il dito sono concavati. Bisogna tuttavia sapere che tanto nelle lasagne che nei corzetti devi mettere una grande quantità di formaggio grattugiato.

Si tratta di lasagne e di corzetti completamente differenti rispetto a quelli a cui sono avvezzi la nostra vista e il nostro palato, ma pur sempre lasagne e corzetti sono.


Continua a leggere I corzetti – Storie di donne, cibi e territori di Chiara Parente

Leggi l’intervista a Chiara Parente: “L’incredibile viaggio dei corzetti: dalla Sicilia del Duecento al Piemonte di oggi”