Io e altre leggende – Il prisma
Ecco un breve estratto dalla raccolta di racconti Io e altre leggende di Lorenzo Hofstetter!
Puoi sostenere questo progetto fino a mercoledì 25 giugno!
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Il prisma
I binari risuonano del treno in partenza. Spandono vibrazioni che si riverberano a ciclo continuo. Ossessivamente. Che urtano Ravenna e il suo clima inspiegabilmente estivo. Non sembra fine ottobre. E io – rifletto – non sembro neanche più io. Il cannabis di prima comincia a fare effetto, mentre mi trascino stancamente fra le file di poltrone blu. Che corsa! Trovo un posto, proprio di fronte a una coppia di anziani, e mi accomodo. La mia fronte sudata tocca la superficie fredda del finestrino. I miei occhi guardano fuori, in cerca di un paesaggio che scorra in senso opposto ai pensieri. Chessò: magari riportando indietro le lancette del tempo…
Distendendo queste stupide rughette, che oggi mi incorniciano gli occhi, impedendomi di riconoscermi. E lui? Lui mi riconoscerà? Ma certo. Che stupidaggine. Lui forse neanche se ne accorge. Ma io come faccio a non pensarci? Adesso, attraverso il finestrino, non riesco a vedere altro che il riflesso dei miei zigomi alti, dei capelli che precipitano come una cascata di riccioli neri sulle spalle abbronzate. Indosso una giacchetta di pile multicolore, che arriva ad altezza ombelico. Pantaloni neri, attillatissimi, e anfibi scuri coi lacci rossi. Oggettivamente parlando, e in tutta sincerità, non credo di essere affatto da buttar via. E me lo confermano quegli sguardi luridi, gli occhi affamati di ogni uomo che incontro. E che ho incontrato anche stamattina, correndo a perdifiato per non perdere il treno. Da ogni bar, lungo ogni marciapiede, sempre quelle facce smunte, predatorie, intente a scannerizzarmi le gambe, il culo, le tette (che, ovviamente, mi ballonzolavano a causa della corsa). Ed eccomi qui. Su un treno che, dagli umori contrastanti di Ravenna, mi tele-trasporterà al consueto oblio di Bologna, una città che sembro frequentare soltanto a questo livello qui. Su un piano di annichilimento temporaneo delle preoccupazioni. Eppure, tutti quei sentimenti che, di solito, mi appesantiscono le giornate, paiono non potersi più scollare. Sarà che alla mia età, superati i trenta, concedersi un viaggio dalla mattina alla sera non dà più quella piacevole vertigine di prima. O forse le rughe servono proprio a questo: a ingabbiare l’anima, che, intrappolata fra quei solchi, non riesce più a fare capolino. A farsi un giretto fuori, permettendo così al suo organismo ospite di riposare, per poi tornarsene a casa un po’ più tranquilla. Che pensieri, che mi vengono. Sarà l’erba, senz’altro. E intanto i vagoni del treno tagliano in due la pianura, tutta caligine e umidità, mentre una leggera tachicardia mi rintontisce. Fare il punto della situazione. Smettere di guardarsi riflessa. Riflettere per conto mio, ecco. Questo è il primo momento in cui riesco a soffermarmi su me stessa dopo mesi. Troppo stress, il lavoro che occupa le mie giornate e anche le mie notti. Un lavoro per la mente sveglia e un lavoro per la mente che sogna. Sto rinunciando a tante cose, pur di mantenere questo impiego in pizzeria. Non mi piace, sia chiaro, né tantomeno penso possa considerarsi una soluzione a lungo termine. No. Ormai ci lavoro da due anni, insieme al mio moroso, e la mia vita sembra essersi assestata. Ho dubbi che mi ribollono alla bocca dello stomaco. Tempo fa, addirittura, mi sono ridotta a farmi leggere le carte. Ero in una bottega che puzzava di stantio, illuminata da una sudicia vetrinetta appannata, da cui il sole agostano si rovesciava all’interno come una tempesta. La signora era secca come un chiodo, dal volto sciupato e con dei profondi occhi a palla, color ruggine. Ho osservato le sue dita ossute, ingiallite dal tabacco, scorrere fra le carte del mazzo, disporle sulla tovaglietta cinese e cominciare a fare ordine. Lei, con quel suo marcato accento romagnolo, rotondo come i suoi lobi grassocci, ha cominciato a leggermi. Io non credo a queste cose. Sono sicura, anzi, che le persone come lei sappiano semplicemente cogliere dei segnali, che noi lanciamo inconsciamente. Fatto sta che il suo discorso mi ha colpita. Ha capito molte cose. Tu, Anita, sei sospesa in un limbo. Hai una relazione stabile, sicura, che ti dà tanto calore e che ti soddisfa. Ma vedo forti incertezze lavorative. Forse lavori con lui? Convivete, anche, è giusto? Sì. Lo riesco a vedere. E poi vedo una vecchia signora. Una signora tutta d’un pezzo. Quanto avrà? Ottant’anni, circa. Forse pure qualcosa di più. La vedo incombere sul tuo presente come un’entità profondamente benevola, colma d’amore, ma anche come un ostacolo alla tua felicità. Chi è questa donna, Anita? Già – rifletto adesso – chi è questa donna, Anita? E chi sono io? La cartomante ha intuito delle cose che mi angosciano. Io non sarò mai come la nonna. Eppure… Nel buio di una galleria, adesso, il finestrino si è trasformato in un vero e proprio specchio. Io sono qui, investita da un’insalubre luce arancione. Le occhiaie mi scavano il volto. Due puntine di eyeliner blu mi cadenzano le palpebre come un tocco di colore su un mare di tristezza. Dove siamo? Mi si legge in faccia tutta questa incertezza? Lui mi riconoscerà?