Scisma – Capitolo uno
Ecco il primo capitolo del romanzo Scisma di Marco Becchetti!
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Capitolo uno
Da lontano si nota un tizio intento a inghiottire e sputare quell’aria inquinata – aspirata dal naso e dalla bocca si diffonde solida simile a cemento nei polmoni che ne hanno già aspirata parecchia, tutto il corpo ormai lo sente intaccato dal suo lacero e silenzioso avanzare, tanto che pensa gli sia arrivata al cervello, e, nell’attimo stesso di ripensarla, la risente di nuovo al naso e dalle cavità in cui é entrata come se questa volta uscisse sbuffando identicamente da come sbuffava dai tubi dei camion, delle macchine e da gli altri veicoli dai quali la raccolta.
Cammina avanti e indietro senza sosta. Sembra non essere del posto, sembra non essere di nessun posto all’apparenza e per la sua rapida apparizione sembra quasi sorto dall’umido appiccicaticcio dell’asfalto sul quale gira e rigira non sa più da quanto; si ferma e riparte non trovando il posto giusto dove far riposare i piedi che rigettano la stasi sulla terra cui posano e che possono sopportare solo per alcuni brevi momenti.
Ancora nell’attesa di rimettersi in marcia, quasi ininterrottamente. Incominciò ad esserlo quando oltrepassò per l’ultima volta la soglia di un edificio che aveva imparato a chiamare casa e ancora non sapeva quanto allontanarsi prima di poter sentire di averla effettivamente lasciata. Pensandoci vi rimase attorno per un giorno o due, un anno o trenta, nel circoscritto perimetro su cui si ergeva ed emanava la sua influenza, pur distanziato parecchi chilometri da essa, studiandone i movimenti: un bambino che ne guarda un’altro che s’aspetti scatti alle sue spalle una volta girati gli occhi.
All’inizio dovette essere proprio così, i piedi puntati a terra e i muscoli tesi e pronti allo scatto, immobili in rigida contrazione come quelli di una statua di marmo eppur vibranti sui blocchi nel dover soffocare tutta la loro potenza e frenesia in attesa dello sparo liberatorio – nessuna volontà o consapevolezza ancora, solo gioco e semplice curiosità: il bambino che guarda l’adulto con sfida volendo gareggiare a un gioco di cui non ha capito le regole e il come si giochi ma a cui vuole ugualmente partecipare.
Finito di pensare, quando ebbe deciso di liberare tutta quell’ energia allungo trattenuta lasciando la casa, portò séco la nostalgia degli avvenimenti ivi passati e racchiusi – trascinando il bambino capriccioso che faceva le bizze scontento di doversi privare di tutte quelle benigne attenzioni – che lo cingevano alla vita, aggrappati alla carne che lacerata emanava sangue calpestato da piedi che giravano a vuoto insensibili al dolore, avanzando con la rimanente forza di spinta che si diede col primo consapevole passo fatto in avanti, conscio di non poterlo rifare all’indietro, ancora sotto l’influsso del monosillabo di risposta, il «Sì», che congiunto alla domanda delle gambe: «Partiamo?» si incastrava a formare l’invito Andare, Muoversi somigliante a un ordine di natura o forza sovrannaturale.
L’Andare, il Muoversi fu quello che fece per diversi giorni e mentre vagava il paesaggio andava mutando di formazione e clima. Percorreva un sentiero di campagna formatosi dal continuo passaggio di carri quando uscì formalmente dalla sua residenza, senza accorgersene, dato che nulla c’era a poterglielo suggerire: un ponte, una linea demarcata sul terreno, un avviso.
Lo seppe d’aver lasciato la sua città per bocca di un contadino proprietario di uno di questi appezzamenti. Quando lo seppe si voltò come se gli avessero evocato parlando un’ombra vivente di cui sembrasse stesse a sentire i lenti passi distanziati avvicinarsi a ogni sosta fatta per prendere fiato. Voltandosi poteva ancora vederla, certo più lontana e non più distinguibile in tutte le sue sfumature, ma più d’essa percepiva nettamente i dolorosi cavi attaccati alla schiena che gli rammentavano la sua presenza dimenticata mentre perseguiva il suo obbiettivo; quei tubi di ferro cavi provenienti dalle fondamenta di quella sua casa dove scorreva linfa vitale ad alimentare due corpi indivisibili tra i quali quello ribelle subiva la tortura per volersi separare.
Proseguì dicendosi se poteva bastare allontanarsi di più per poterli spezzare e far cessare il dolore o anche solo alleviarlo. Lo fece, si allontanò maggiormente, ma non bastò. Allora provò a uscire prima fuori dalla sua regione, poi dalla sua nazione e infine di netto in un altro continente. Fece tutto questo ma niente sembrava bastare mai a sufficienza.
Così visse viaggiando, fuggendo senza appiglio se non quello di essere nella giusta direzione scritta nelle pieghe delle facce della gente che incontrava e che per rivelargliela dovevano solamente essere differenti l’una da quella precedente e mai ricongiungersi a un frammento lasciato dalla stessa nella memoria perché ciò avrebbe voluto dire averla già incontrata e aver passato troppo a lungo tempo nello stesso posto o di non essersi allontanato abbastanza nell’ultimo spostamento, e, a conseguenza di ciò, corso il rischio di dare un nome al suo volto ed essere ricordato. In completo subbuglio s’aggirava fra antri invisibili come lo spettro al quale era paragonabile – un’essere che data età e abitudine poteva ben dirsi di non esistere più avendo come unico inconveniente la consapevolezza di aver vissuto –, cieco nel suo torpore ai cambiamenti che si svolgevano durante il succedersi delle giornate: notte e giorno, luce solare o chiarore notturno, intercambiabili su un orologio dalle lancette spostate dal loro giusto ritmo che indicavano minuti e ore del tutto anomale per niente assoggettate alle leggi del tempo corrente.
Durante il viaggio l’avevano assillato i semplici incontri con le genti più disparate, intrappolate in una ossesiva tormenta di sabbia, afa e asfalto, rimanendo alla fine nient’altro che voci senza volto e volti senza nome che ricomparivano veloci alla memoria mostrandosi di volta in volta con facce ora sgranate e rugose, ora giovani e lucide; e qualsiasi forma assumessero le loro bocche emettevano suoni fuorisincrono rispetto al loro muoversi.
Stanco e impotente aveva assistito fuoriuscire dal vortice della Babele che aveva attraversato incomprensibili linguaggi in un misto fra la sua lingua ed altre che non conosceva e fra risposte di «No», «Non so» e inconcludenti spiegazioni vagava come una nave dispersa a cui le stelle non indicavano la giusta via.
Scusi da che parte è?
Si deve immettere, giri a sinistra all’incrocio, poi prosegua seguendo le indicazioni…
Da che parte devo andare per…
Allora uscito da qui vada sempre dritto, prenda la prima svolta a sinistra e continui poi in avanti per trecento metri, ricurvi a sinistra e al seguente incrocio svolti a destra, poi ancora avanti… o forse sinistra… Comunque arrivato lì dovrebbe essere già a buon punto
È qui vicino giusto…
Non lo so, ma non deve essere da queste parti. Sono di qui, lo saprei
«Qui dove?» si chiese più volte nel lungo cammino passando sotto indefinibili cieli di indefinibili luoghi.
In una mattina senza sole coperta da fitti nubi e losche nuvole, proveniente dal Nulla di un indefinito mare di terra ove allungo aveva navigato, la nave straniera di scrutare l’orizzonte o far affidamento su bussole o cartine per orientarsi non ebbe bisogno alcuno. In cerca di un approdo sereno in un porto tranquillo non ebbe bisogno di scelta nella direzione del cammino dove proseguire nel suo naufragio.
Nella magnifica desolazione dei grandi e vasti spazi che la avvolgevano – piante mai viste, frutti mai visti –, nella discesa verso la scoperta dell’abisso la salvezza del relitto era un miraggio. Il miraggio era un punto sopra la sua testa alle pendici di una montagna. Il punto era la città da raggiungere e la città era il porto dove approdare.
Passo dopo passo sentì gradualmente crescere il flebile e stantio battito della città, abbastanza distante da confondersi in quelle zone con la terra selvaggia. La strada che aveva lentamente risalito era stata vista da egli come un arteria che diramandosi e ramificandosi dal cuore (la città) trasportava il lento pulsare della civiltà a nutrire quella landa desolata, facendo crescere e comparire rustiche case di contadini gettate come una manciata di insignificanti microscopiche briciole che non lasciavano traccia della loro presenza a paragone della vasta dimensione dove erano sparse. Steccati a trattenere bestie da allevamento: cavalli, pecore, mucche, conosciute solo tramite fotografia prima d’allora.
Risalendo lungo il lembo di strada asfaltata persa nel mezzo di una zona campestre ondulante, le pulsazioni del battito erano aumentate d’intensità lungo un sangue irrorato con più capienza nella terra, dove le strade intrecciate a quella principale seguita da lui contornavano il mutato paesaggio con case meno spoglie rispetto le precedenti al suo passaggio: villette, senza bestie a eccezione di qualche cavallo a pascolare dentro recinti, e colorati tappeti gialli e rossi di piante, fiori e vegetali allevati non per essere estirpati o mangiati ma per mostrare i loro boccioli e frutti colorati.
Passo dopo passo il battito era andato sempre aumentando al suo avvicinarsi finché non scorse le cupole, le torri e l’architettura strabiliante partita da quel vagheggiante punto e trasformatasi in straordinarie costruzioni. E fu lì che il relitto capì che nel suo naufragare aveva scoperto di essere approdato a un oasi quando in un mattina senza sole il marinaio sceso dalla nave ormai derelitta varcò la soglia del Rifugio, per trovarvi approvvigionamento e ristoro. Chiedendosi e rispondendosi: «Ne vale la pena? Sì. Dunque mi fermerò? Sì. Abbiamo infine trovato ciò che cercavamo? Sì».
L’inaccessibilità di quel luogo parve placarlo da principio sennonché soddisfarlo fino a convincerlo a fermarsi per far rilassare il suo organismo. E poi, dopo un tempo abbastanza lungo dall’essere dimenticato, a rimanere.
Scaduta la fase del viaggio, raffreddato il furore dell’allontanamento nel sangue e rafforzato il convincimento dell’irraggiungibilità, iniziò il tempo d’una fase susseguente, un periodo dedicato allo studio e all’ ambientamento nella sua nuova terra. Studio effettuato ed eseguito direttamente sul campo annotando mentalmente le azioni della vita quotidiana svolte in una determinata ora e luogo e i comportamenti che assumevano nelle interazioni fra loro gli abitanti.
Prese a incollarsi a una terra in cui anche gli animali e gli oggetti inanimati riconoscevano e rispettavano un perimetro non delimitato dalla natura o secondo leggi selvatiche ma pareva seguendo quelle politiche e amministrative degli umani.
Primi eventi sostanziali che gli permisero di unirsi e adeguarsi appieno ai ritmi dei suoi concittadini, assorbendolo e inserendolo in una perenne ciclo ripetitivo che regolasse le sue disfunzioni, furono l’acquisizione di un impiego e l’affitto di una camera in una pensione.
Da un mese era in città e ogni giorno era come se vi fosse da straniero pur avendo trovato una dimora semi-stabile e un lavoro. Straniero in una città di cui bastava sentire il nome o essere in grado di leggerne il nome su di un cartello segnaletico (come aveva fatto lui al suo progressivo avvicinamento quando scorse il primo ai dieci chilometri e nell’avanzare ancora fino a quel centimetro in più o meno necessario a varcare un’inviolabile porta per entrare anche solo di un mezzo millimetro oltre il confine sacrale), respirarne l’ aria o già solo esserne a contatto per far sapere telepaticamente a qualsiasi cosa, persona o animale di essersi spinti a profanare il loro territorio e suscitare in tutte e tre le categorie un’ostilità repressa verso qualsiasi cosa, persona o animale fosse penetrato. Un microsistema nel clima, nei costumi, nei modi, nella tradizione e nella vita se non già mondo e universo chiuso in trecento chilometri quadrati ed eterno, finito in essi, come se nulla potesse esistere all’infuori di esso né qualcosa di esso esistere al dì fuori. Esistere ed esistenza di qualcun’altro e di qualcos’altro al dì fuori di essa riconosciuto da essa stessa e dai suoi abitanti considerandola come si considerano normalmente altri vuoti mondi studiati e analizzati nella speranza di trovarvi un che di riconducibile ad un loro simile concetto di vita, e agli esseri che lo abitano concedere di comunicare e tentare d’interagire a tale comunicazione superficiale impossibilitati a un rapporto intimo o di confidenza, ostacolati da sentimenti e sensazioni che non sanno se quegli esseri abbiano o possano avere, o se le hanno, supponendo che non possono essere le stesse provate da loro.