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Sotto la neve – Capitolo uno

Ecco il primo capitolo del romanzo Sotto la neve di Manuela Repetti. In esclusiva per tutti coloro che prenoteranno il volume entro il 27 marzo, data di uscita ufficiale del libro, la copia autografata!

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Capitolo uno

Quell’immagine le ricordava la scena iniziale di uno dei suoi film preferiti: La mia Africa. Dall’alto quel lungo convoglio sembrava un enorme serpente solitario che tagliava in due il monotono paesaggio del deserto.
In realtà nulla aveva a che vedere con l’Africa, né con i deserti. Era l’infinita tundra canadese, nella parte nord della provincia del Manitoba, verso la baia di Hudson. Quel lungo convoglio era il treno che collega Winnipeg a Lastville un paio di volte a settimana. Un viaggio lungo, faticoso, della durata di quasi due giorni, che Linda aveva percorso qualche volta solo quando era stato necessario per trasportare grossi bagagli. Spingeva la fronte sul vetro umido dell’aereo per seguire il treno che stava scomparendo nell’angolo in basso del finestrino.
Mancava poco più di un’ora all’arrivo all’aeroporto di Lastville. Il libro che aveva portato con sé per passare quelle quattro ore di volo era rimasto aperto sul tavolinetto reclinato sulla prima pagina. Non era riuscita a leggere pressoché nulla a causa del fastidioso baccano di un gruppo di americani, probabilmente turisti mezzi ubriachi che fin dal decollo avevano ininterrottamente sghignazzato ad alta voce.
Nemmeno l’intervento dello steward, l’unico dell’equipaggio oltre al comandante e al suo vice, che li invitava ad essere più rispettosi nei confronti degli altri passeggeri, era servito a qualcosa. Dopo un iniziale silenzio di qualche minuto, gli schiamazzi erano ripresi, ancor più forti di prima.
L’aereo era un vecchio bimotore a elica con una capacità massima di una trentina di passeggeri, dunque poco stabile durante le turbolenze, ma quel giorno il viaggio fu particolarmente calmo. Solo quando cominciò ad abbassarsi di quota, attraversando gli strati d’aria diversamente densi di umidità, cominciò a traballare. Linda ripose il libro nella sua borsa a zaino e richiuse il tavolinetto, come l’attento Stewart l’aveva invitata a fare per la seconda volta.
Mancavano solo 20 minuti all’atterraggio. Dal suo lato, a sinistra, vedeva bene la cittadina di Lastville adagiata sulla punta di una piccola penisola sul mare glaciale artico. In realtà, più che una cittadina, era un agglomerato di case costruite ordinatamente su una decina di strade che si intrecciavano perpendicolari una con l’altra, popolate da un paio di migliaia di persone. D’estate veniva visitata e frequentata da centinaia di turisti alla ricerca degli orsi polari. Ma ormai l’estate era finita e di turisti, a parte quel gruppetto di americani brilli sull’aereo, non se ne vedeva più l’ombra.
Nella parte più interna della penisola, al riparo dalla forza impetuosa di quel mare, era stato costruito il porto, particolarmente attivo per il trasporto di merci in collegamento con il resto del mondo, a cominciare dalla lontanissima Asia. Un porto considerato importante ma che per la maggior parte dell’anno rimaneva immobilizzato dal ghiaccio che lo avvolgeva completamente e lo paralizzava come le spire di un serpente costrittore.
In quel sabato dei primi di ottobre una nave in rada davanti al porto aspettava che quella ormeggiata, ormai carica e pronta a partire per il lungo viaggio verso est, le lasciasse il posto. Dopo aver lasciato passare il gruppetto di americani, che durante il rullaggio erano già in piedi a frugare nelle cappelliere nonostante il rimprovero dello steward ormai rassegnato, si alzò con il suo zaino in spalla e raggiunse il portellone spalancato.
Si fermò, prima di scendere la scaletta mobile, a contemplare quel paesaggio a lei ormai noto, ma avvertendo sempre la sensazione di essere un ospite in quella landa agli antipodi del mondo.
Tutto attorno era piatto; un’infinita pianura. Niente colline, non una montagna. Solo distese di terra, rocce e prati attraversati qua e là da migliaia di rivoli d’acqua, laghetti e fiumi, come il complicato sistema circolatorio di un essere vivente. Ogni tanto si scorgeva qualche avvallamento di terra e roccia che rompeva quel piattume; piccolissime colline che non si innalzavano mai più di qualche decina di metri.
Era un pomeriggio con il cielo terso. Solo qualche nuvola graffiava l’azzurro intenso. Linda adorava quel periodo dell’anno con un clima ancora discreto, che permetteva di vivere fuori e godersi la natura, cosa praticamente impossibile per circa sei mesi l’anno a causa di temperature rigidissime, senza però l’inevitabile caos del soggiorno dei turisti nei mesi di luglio e agosto. Caos che però le permetteva di sopravvivere, accompagnando i turisti durante le gite con il Tundra Buggy, quell’enorme bus fuoristrada utilizzato per andare in cerca degli orsi polari. E durante il periodo non turistico si adoperava a dare una mano ai gruppi di ricercatori che soggiornavano nelle basi di ricerca scientifica a Lastville.
Si trattava per lo più di squadre di giovani che studiavano il cambiamento climatico e il comportamento dell’orso polare, a rischio estinzione. I suoi compiti erano semplici, come l’organizzazione della logistica e del sostentamento nelle basi, oltre a fare da guida durante gli spostamenti per la ricerca. Non aveva bagaglio perché le cose che era andata a comprare a Winnipeg le aveva fatte spedire.

Era un viaggio che faceva una volta ogni due mesi circa, tranne il periodo da dicembre a marzo in cui risultava davvero difficile organizzare spostamenti aerei a quelle latitudini. Accadeva solo in casi di emergenza.
Si affrettò a salire sul suo fuoristrada color sabbia che aveva lasciato nel piccolo piazzale davanti all’aeroporto. Voleva tornare a casa in tempo per vedere la trasmissione Chi vuol essere milionario convinta che quella sarebbe stata la giornata giusta per il campione che da due settimane confermava di essere imbattibile ma, pur avendo sfiorato il montepremi per ben due volte, non era ancora riuscito a superare l’ultimo scalino per la super vittoria.
Linda abitava nell’ultima fila di case dal lato del mare. Una casa di cemento e legno che somigliava a uno chalet. Piccola, come quasi tutte quelle di Lastville, per poter trattenere il calore che a quelle latitudini implicava un dispendio di energia notevole.
Mentre stava per aprire la porta, alzò lo sguardo verso il vicino, accennando un sorriso. Tutte le volte non riusciva a non guardare il vetro sopra la porta d’ingresso che era coperto dall’interno da due bandiere, una accanto all’altra, come se fossero due tende: quella canadese e quella dell’Unione Sovietica, con la falce e il martello. Erano dieci anni che le vedeva ogni giorno, ma non aveva smesso di stupirsi e di guardarle con curiosità e persino simpatia, sapendo che il vicino era un canadese puro, nato e cresciuto in Manitoba. Il muro di Berlino era caduto da quasi trenta anni; perché mai sventolare la bandiera dell’Unione Sovietica lassù, nella baia di Hudson, in un luogo così sperduto, abitato da poche anime, dove l’organizzazione sociale della Comunità era talmente semplice da risultare discretamente funzionante? Linda entrò in casa con lo stesso dubbio che da anni le rubava qualche attimo della sua quotidianità, ma che le regalava un sorriso anche in giornate difficili.

Ogni volta che tornava a casa provava una sensazione di felicità nel rinchiudersi in quello che per lei rappresentava un rifugio dove si sentiva al sicuro, lasciando fuori dalla porta tutte le insidie. Fra libri, dischi in vinile e con il camino acceso, riusciva a rilassarsi e dimenticare tutto, anche la sua solitudine.
Si tolse le scarpe all’ingresso senza indossare i ciabattoni di pelliccia sintetica con il muso da pecora che aveva comprato anni prima in un viaggio in Irlanda; erano consumate, al muso di quella destra mancava un occhio, ma era affezionata a quelle ciabatte che facevano parte dei suoi ricordi con Carlo.
A Linda piaceva camminare scalza sul parquet quasi completamente coperto da tappeti di lana spessa che aiutavano a trattenere il calore. La casa era fredda. Era bastato qualche giorno con il riscaldamento spento per trasformarla in una ghiacciaia, nonostante fosse appena iniziato l’autunno, almeno sul calendario. Corse ad accendere il riscaldamento che era impostato fisso sui 21 gradi. Poi, siccome amava il caldo, avrebbe acceso anche la stufa e più tardi, poco prima di cena, anche il camino. Era abituata ad accenderlo tutte le sere. Le piaceva guardare il fuoco. Nessun movimento, nemmeno quello dei ballerini più bravi, le pareva aggraziato e armonioso come quello delle lingue di fuoco.
Stava per sistemare nella stufa gli ultimi due ciocchi di legna rimasti in casa, quando sentì bussare alla porta e poi suonare il campanello. Era il suo amico Philip che, per farsi riconoscere, aveva l’abitudine di bussare e subito dopo suonare.
Aprì senza chiedere né controllare proprio perché sicura che fosse lui. Senza neanche salutarla, con uno sguardo preoccupato, esordì: – Hai già saputo?
La fissava senza aggiungere altro in attesa di una risposta.
– Cosa? No, sono appena tornata da Winnipeg… intanto entra e dimmi cos’è successo.
– Non si trova più Desiré, la figlia più grande di Arthur. Era uscita nel primo pomeriggio con sua sorella Molly per andare a fare un giro in bici. Poi verso le tre e mezza Molly è tornata a casa mentre Desiré l’avrebbe raggiunta dopo aver fatto ancora un giro per andare a raccogliere fiori. E non è più tornata.
D’istinto Linda guardò l’orologio: – Sono le cinque e mezza e fra poco sarà buio. Avete già iniziato a cercarla? E dove erano andate?
Si sedettero sulle due poltrone del soggiorno, Linda su quella accanto al camino e Phil su quella all’altro lato del divanetto.
– Si erano dirette dalla parte della pineta. Si sono fermate a giocare sullo spiazzo, sai, quello che si trova di fronte alla casa di Ethan. Poi Molly ha deciso di tornare a casa, mentre Desiré le ha detto che sarebbe andata a raccogliere qualche fiore e sarebbe tornata a casa da lì a poco. Sono passate più di due ore ormai…
– Andiamo a cercarle!
– No, Linda. Fra poco sarà buio e ci sono già almeno cinque o sei mezzi a cercarla. Io vado con Bob col suo pick-up, non c’è posto per tre. E non è bene che tu esca sola: volevo solo avvisarti. Ora vado. Bob è già qui fuori che mi sta spettando; appena ho notizie ti avviso.
Rimase seduta senza nemmeno rispondere e lo seguì con lo sguardo fino a che Phil non si chiuse la porta alle spalle.
Per come era fatta Linda, d’istinto avrebbe preso il suo fuoristrada e sarebbe andata ad aiutare nelle ricerche, anche da sola. Ma razionalmente sapeva che non sarebbe stata d’aiuto. Troppe auto con i fari accesi nel buio pesto di una distesa infinita avrebbe diminuito la possibilità di sentire eventuali suoni o rumori, anche quelli più lontani. E poi uscire dal centro abitato da sola in auto era estremamente pericoloso per la presenza degli orsi bianchi. Di giorno non si avvicinavano al centro, ma di notte era tutt’altra cosa.
Dunque, non poteva fare nulla. Doveva solo aspettare.
Non c’era sufficiente legna nella cesta, così decise di uscire per prenderne un po’ nella legnaia sotto il piccolo portico sul retro della casa. Pur dovendo fare pochi passi, soltanto una cinquantina di metri fra andata e ritorno, si rimise gli scarponi, il giaccone imbottito appeso accanto alla porta e il suo cappellino di lana morbida a strisce colorate bianche, azzurre e rosa, con un simpatico pon-pon sulla sommità. Linda era molto affezionata a quel cappellino; era un ricordo di sua madre.
Sapeva che, sebbene fosse ancora solo fine settembre, il freddo, specie dopo il tramonto, era già particolarmente pungente, e poi si stava preannunciando una tormenta di neve. A quella latitudine, nella baia di Hudson, l’estate durava pochissimo, solo due mesi. Le mezze stagioni erano come gli inverni europei e l’inverno era decisamente polare, fatto di ghiaccio e neve. Il mese di settembre, ormai finito, era stato particolarmente clemente con temperature attorno ai 10-15 gradi, prolungando così la fresca estate, ma da qualche giorno si capiva che il clima stava cambiando.
Ormai il sole era tramontato e stava imbrunendo. Appena girato l’angolo sentì sul viso una brezza pungente che proveniva da nord, dalla baia. Dal retro della casa dove si trovava la legnaia si vedeva direttamente il mare; nessuna casa si frapponeva fra la sua e la baia.
A quell’ora non c’era più nessuno in giro, le piccole case di legno, di cemento o di lamiera, alcune veri e propri container, erano già puntellate da piccoli rettangoli di luce che disegnavano le finestre. Di notte, Lastville si trasformava in un presepe di Natale per trecentosessantacinque giorni all’anno.
Dopo aver riempito la cesta di ciocchi di diverse misure e taglio, la tirò su rendendosi conto che la sua forza non era più la stessa, anzi, ultimamente era come se, a causa degli anni che avevano superato il mezzo secolo, stesse diminuendo sempre più velocemente.
Prima di girare l’angolo si girò verso il mare come un richiamo istintivo. Si vedeva ancora il blu delle onde increspate; un blu merlettato di bianco di un mare perennemente agitato che di lì a poco sarebbe diventato nero facendo un tutt’uno con il buio del cielo.
D’improvviso le venne in mente la piccola Desiré. L’avevano forse trovata? Si, non poteva essere altrimenti.
Accelerò il passo per rientrare in casa e vedere se nel frattempo fosse arrivato qualche messaggio. Messi i piedi nelle sue ciabatte calde, dopo aver posato con fatica la cesta accanto al camino, aprì il cellulare che aveva lasciato sulla poltrona: non risultava nulla. Era strano che Philip non l’avesse avvisata sugli eventuali sviluppi della ricerca. Non era un buon segno. Molto probabilmente significava che ancora non l’avevano trovata. A quel pensiero sentì salire un nodo alla gola, così scrisse a Philip: Ancora nulla? Dove siete?
Morsa dall’angoscia, il suo sguardo si posò su una foto sul camino, in cerca di conforto. Una foto con una cornice liscia d’argento ormai scura, mai lucidata: era lei con suo marito Carlo e la loro cagnolina Panna, fra le montagne della Valle d’Aosta, quando ancora vivevano in Italia. Erano passati 15 anni da quello scatto. Carlo era un biologo e aveva fatto dell’amore per la natura e per gli animali, che condivideva con Linda, un lavoro. Dopo anni passati fra le montagne a studiare la riproduzione di stambecchi e camosci, gli era stato offerto di trasferirsi nell’estremo nord del Canada per un progetto di ricerca sui cambiamenti di vita degli orsi bianchi di riflesso al cambiamento climatico.
Fu così che si trasferirono esattamente dieci anni prima, a Lastville; lui, lei e Panna. La loro permanenza avrebbe dovuto durare circa un anno, ma il progetto fu prorogato per altri due anni e Carlo, d’accordo con Linda, aveva accettato di rimanere.
Non era stato facile adattarsi a quel clima così rigido, a vivere in una piccola comunità composta per almeno la metà da avventurieri, da persone alla ricerca dell’estremo per ritrovare un equilibrio perso, un po’ come quando si ricorre ad una scossa elettrica al cuore quando va in fibrillazione e c’è bisogno di uno scossone per ritrovare il ritmo. Non era stato per nulla facile, ma in cuor loro sapevano di aver sempre desiderato di fuggire lontano dal caos, lontano dalla civiltà.
Furono due anni vissuti intensamente, quasi a toccare la felicità. Solo due anni, perché una mattina di aprile Carlo non si svegliò. Un infarto lo aveva stroncato durante il sonno. Panna morì esattamente un anno dopo.
Erano passati ben otto anni da quando Carlo se ne era andato e sette da quando anche Panna l’aveva lasciata completamente sola. Eppure, guardava quella foto come se il tempo si fosse fermato là, fra le montagne aguzze delle alpi italiane.
All’inizio era rimasta a Lastville più per inerzia che per una vera e propria scelta. Poi, con il passare dei mesi e poi degli anni, si era impigrita, e non aveva trovato né il momento giusto né il modo per allontanarsi da quel luogo congelato nel tempo e nello spazio.
Rimase assorta nei suoi pensieri rivolti al passato per un po’, quando i sintomi della fame si fecero sentire. Decise di prepararsi un tè caldo con i biscotti. Tornò dalla cucina con la tazza di tè zuccherato e con un po’ di limone già spremuto (non sopportava la tipica fettina di limone, a suo modo di pensare poco igienica e che metteva in difficoltà chi doveva combattere col cucchiaino per schiacciarla e fare uscire il succo) e il pacchetto di biscotti ai cereali. Le piaceva mangiare sulla poltrona davanti al fuoco e alla tv.

La solitudine l’aveva impigrita, e poi trovava penoso apparecchiare una tavola solo per sé.
Quella sera però le era scappata la voglia di guardare la tv. Mangiò con particolare lentezza, che non le si addiceva, i biscotti inzuppati nel tè, uno ad uno, mentre guardava fuori dalla piccola finestra che dava a ovest, dove si intravedeva una stradina secondaria contornata di piccole case e un pezzo della baia.
Era mezzanotte quando si svegliò e si rese conto di aver dormito sulla poltrona per quasi quattro ore. Aveva ancora il tovagliolo appoggiato sul ventre con le briciole dei biscotti.
Le faceva male il collo, probabilmente per aver penzolato durante il sonno. Riguardò il telefono ma non c’era alcun messaggio. Lo riguardò con attenzione per assicurarsi che ci fosse campo e che funzionasse.
Sembrava tutto regolare, purtroppo. Ormai era tardi, troppo tardi per chiamare qualcuno. Così decise di andare a dormire.


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