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Itaka – Capitolo Due

Ecco il secondoo capitolo del romanzo Itaka di Maria Enza Bertilone!

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Capitolo Due – Lasciare

Quando ho lasciato la mia città, ricordo mio padre fuori dal fi- nestrino della corriera, con lo sguardo malinconico del nido vuoto. Dicono che sia tutto naturale, ma non per questo poco doloroso, anche io sentivo una specie di languore mentre osservavo lo stretto di Messina illuminato dalle prime luci del giorno. Aveva una strana aria onirica, forse era colpa della fata Morgana o dei raggi del sole che sbattendo contro la madonnina dorata, protettrice della città creava uno strano cerchio di luce, o forse era solo il mio cuore, che batteva all’impazzata lasciandomi stordita, tra il sonno e la veglia. Vedevo passare davanti ai miei occhi un paesaggio che conoscevo a memoria, ficarrazzi, ulivi, scogliere, una distesa d’acqua che da sempre era stato il mio orizzonte. Ero così abituata che ogni muretto a secco, ogni casa non finita, tutti quei panni stesi ad asciugare al vento, erano i miei arti, il mio prolungamento, quello che mi rendeva figlia della mia terra.

Figlia di una città che era stata distrutta dal terremoto e che ave- va ricostruito le proprie radici sulle macerie, e non so come fosse possibile quella strana naturalizzazione delle macerie si rifletteva negli occhi di ogni persona che avevo incontrato, in quell’unica capacità di adattarsi ai terremoti della vita, a quei sussulti improv- visi che partoriscono una crepa sul volto. Era per questo che amavo rubare degli scatti per strada, andare dentro a quelle crepe, fissarle nel tempo, raccontarle. Cu nesci arrinesci.
Per un siciliano, quello che c’è oltre il mare è timore e tremore, è lo straniero che incanta e ferisce.
È il Riggitano che sta a soli tre kilometri di distanza ma in un altra sponda dello stretto, «forestiero è», il cittadino che si trova in visita in provincia, con l’aria metropolitana ed emancipata. L’Eoliano poi, che vive il privilegio di abitare dei paradisi terrestri è ancora più spacchiusu e acquista il privilegio di abitare l’isola nell’isola adornando quasi l’aria schizzinosa di chi conosce veramente l’isolanità.

Straniero è tutto quello che sta fuori dall’isola, fuori da quella circolarità che si autoalimenta e si vizia. Insulanità alla quale ap- partiene l’uomo stesso, piccoli movimenti tettonici che attirano e respingono con un movimento di chiusura e apertura l’altro. Da bambina sognavo di scavallare quella linea tra il cielo e il mare, di scartavetrare l’orizzonte, conquistarlo sul dorso di un onda e lasciare l’isola.

Oggi l’isola mi chiama di giorno e di notte, anche se ho scelto la terraferma, quella senza i sussulti del terremoto e senza la sua provvisorietà. L’isolano sta nel presente. Lo vive, lo gusta come fa con un babà, chiude gli occhi appena scorge un raggio di sole, aspetta il tra- monto come se fosse la prima di una rappresentazione teatrale, si muove così lentamente, dall’essersi accaparrato l’etichetta di pigro, ed è quasi incapace di pensare al futuro, Vuoi per scelta, vuoi per necessità.

Ha solo due vie da percorrere, lasciare l’isola e subirne per sempre il fascino o piegarsi alle sue non-regole inasprendo lentamente come pietra lavica.
«Neuneuroneunundvierzig bitte»
«wie bitte?»
Li riconosci a prima vista, capelli arruffati e una spaesatezza esistenziale. Conoscono la strada che li porta alla scuola dei figli o al supermercato, eppure, hanno quella faccia allampata e un poco assente e anche se annaffiano ogni giorno il loro terreno, le radici di un albero sdradicato non attecchiscono. Lontani anni luce dal vento di scirocco e dai loro sogni, laureati con lode, trovano spazio nel mondo, fuori dalla loro terra, percorrendo esattamente lo stesso cammino dei loro nonni, questa volta con una valigia a quattro ruote. Sono gli Auslaender , cercano di integrarsi bevendo birra bionda e comprando giacchette da trekking in goretex, ma sono come Ulisse, e come Ulisse vogliono tornare a Itaca.